Il grande dittatore
Ci sono film che ci portiamo dentro da sempre, eppure quando li ammiriamo di nuovo ci commuovono come la prima volta. Il "Grande dittatore" è la crescita naturale dello Charlot che abbiamo amato nelle comiche. Prima di tutto è il primo film in cui il nostro personaggio parla (in "Tempi moderni" ci prova ma "perde" le parole). Secondo: è il film che "complica" la linearità comica di quell'omino con la bombetta e il bastone che morirà due film più tardi, rappresentato da quello straordinario Calvero, che altri non è se non una sorta di Charlot vecchio (a quando una riedizione di "Luci della ribalta"?).
La trama del film la possiamo trovare, purtroppo, su qualsiasi manuale di storia contemporanea (cambiano soltanto i nomi).
È difficile parlare di un film su cui è stato detto tutto e il contrario di tutto. Ne "Il grande dittatore" è rappresentata la follia umana, il dolore degli uomini, la farsa, la tragedia, la pantomima (la prima parte ci può ricordare una delle tante comiche di Charlot: "Charlot soldato"). C'è la storia degli uomini oppressi, la guerra sempre ingiusta; c'è Paulette Goddard (splendida!), Jack Oakie (uno straordinario Napoloni/Mussolini) e c'è Charlie Chaplin, uno dei più eccezionali autori dell'arte cinematografica di sempre. E poi ci sono quei sei minuti finali: una preghiera straziante per l'umanità, che bisognerebbe far vedere in tutte le scuole e le camere di consiglio del mondo, specie in tempi come questi in cui la guerra e l'intolleranza sembrano l'unica fede di mascalzoni che regolano le nostre vite.
Tutto questo Chaplin l'ha detto più di sessant'anni fa, con il coraggio di un genio che in seguito vivrà sulla sua pelle, l'ingiustizia di essere giudicato (male) da "quelli che decidono". Perché ci vuole coraggio per fare un film così nel 1940, quando in Europa è già scoppiata la seconda guerra mondiale e Hitler è ancora lì più forte di prima (lo stesso coraggio che avrà Ernst Lubitsch quando due anni più tardi realizzerà "Vogliamo vivere", un altro capolavoro da riscoprire).
Eppure è incredibile che ancora oggi il messaggio del piccolo barbiere ebreo (non ha neanche un nome, perché è ognuno di noi), sia attualissimo, vuol dire che la stupidità umana non conosce limiti. Però la forza di lottare malgrado le ferite, il desiderio di intraprendere quella bellissima strada che è il futuro (il finale di "Tempi moderni"), non deve lasciarci mai. Ogni film di Chaplin è uno straordinario messaggio poetico, ed anche se ogni volta ci sembra di morire davanti ai colpi dolorosi (nel "Grande dittatore" è rappresentata l'infamia più grande), dobbiamo rialzarci e gridare la nostra vita. Sempre. "Ma poi non so: sono morto tante volte" (Chaplin-Calvero in "Luci della ribalta").

Renato Massaccesi

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