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Viva la libertà











Il popolo è sempre più stanco, solo, disilluso. E, sicuramente, ha paura. Il segretario del partito dell’opposizione, Enrico Oliveri, non ce la fa più a guidare il proprio paese e, nel pieno vacillare delle certezze, non trova migliore soluzione che quella di scappare.
Del resto, non per nulla è italiano. Tuttavia, è proprio nel culmine della crisi che al suo posto fa la propria comparsa il gemello Giovanni, filosofo appena uscito da una clinica per qualche disturbo di bipolarismo. Tutto regolare, insomma. Il nuovo vecchio volto politico, conscio della propria mente più che delle proprie responsabilità, cui l’altro aveva prontamente abdicato, sale sul podio a gridare versi di Brecht. E la politica la fa, costruendo un seguito, risanando cuori afflitti e sguardi vacui. Soprattutto, sconfiggendo quella paura e ridestando le speranze tanto attese. Le quotazioni del partito finalmente salgono e tutti, ora, sembrano pendere dalle labbra di quell’uomo che stentano a riconoscere, che sa parlare attraverso la differenza, che balla nei corridoi al vertice, che appare e scompare come un mito leggendario. Questo è Viva la libertà. Un film leggero che tratta argomenti seri in momenti ancora più bui. Non è un film politico, nonostante la politica sia quel livello sommesso che affiora negli interstizi del girato, dei dialoghi, nei cambi di scena e nei tagli di montaggio. Tratto dal romanzo Il trono vuoto dello stesso regista Roberto Andò, edito Bompiani nel 2012, e scritto a quattro mani con la collaborazione di Angelo Pasquini, Viva la libertà è più che altro una politica di ruoli, se così si può dire. Un istrionico Toni Servillo si destreggia su quel palco che è il suo trono, muovendosi con grazia anche quando il suo personaggio scappa dagli errori e inciampa nella vita, per cadere ancora e ritrovare quella terra da cui può rialzarsi solo dopo essersi sporcato i vestiti. Il suo doppio è tutto quello che a lui manca, un’astrazione e un valore aggiunto sottratto per nome di un dovere che non si riesce a portare a termine se non richiamando proprio quella percentuale di scarto. Es e Super Io si confrontano sull’arena dell’esistenza. A giocare non c’è il politico che tutti gi italiani attendono, che hanno dimenticato ormai vittime di un sistema di poteri e di forze sfuggito al controllo, che invocano a chi sta solo esercitando la finzione. A giocare c’è proprio l’Uomo. Con le sue fobie, le sue manie, i suoi tic, la sua arroganza e la sua semplicità. I riferimenti alla letteratura, al cinema e ad un intero patrimonio culturale sono infiniti, a partire dalla musica di Verdi, che delizia i passi di ligi uomini in grigio, fino alla tematica dell’identità perduta, un sottotesto che si libera tuttavia di enciclopedismi in pompa magna per farne espedienti che puntino all’essenziale. L’amore di due donne rimbalza addosso a quei corpi di fascino che sanno rivelare l’ambiguità insita in ognuno, di cui anche Mastrandrea resta vittima, con un’eco che arriva a scompigliargli i capelli tanto accuratamente imbrillantinati. Ruoli di primo piano e spalle si confrontano in duetti di grande intensità, da cui nessuno è esiliato e tutti sono indispensabili, parti di uno stesso mondo culturale che è quello della vita stessa, ipotetico, reale e utopico al tempo stesso. Sicuramente, in buona parte ingannevole.

La frase:
"In fondo la politica e il cinema non sono poi così distanti. Sono due mondi in cui il bluff e il genio cesistono. Non è sempre facile distinguerli".

a cura di Marta Gasparroni

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