Anime nere
Tra i colli calabresi, in un piccolo borgo dell’Aspromonte, si snoda la vicenda di tre fratelli, Luigi, Rocco e Luciano. Tutti e tre sono coinvolti nel mondo della criminalità organizzata e si avvicinano ad esso ognuno in maniera diversa. Luigi e Rocco, i più piccoli, si sono trasferiti a Milano e vivono grazie a spaccio di droga e denaro sporco; il maggiore, Luciano, è rimasto nel paese di origine, cercando di prendere le distanze dal mondo dei due fratelli.
Una notte Leo, figlio ventenne di Luciano, spara dei colpi di fucile sulle vetrate di un bar per rispondere ad una provocazione. Il locale, però, è protetto da un clan locale che sembra non reagire bene al gesto del ragazzo.
Il film di Francesco Munzi è un oggetto ambiguo: da un lato si inserisce perfettamente nel filone di film/serial sulla mafia che dal “Gomorra” di Garrone costituiscono ormai un ‘genere’ nel cinema italiano e, in fin dei conti, non aggiunge nulla di nuovo, né stilisticamente né sul piano narrativo. Dall’altro sembra reclamare un’indipendenza da essi, gettando uno sguardo quasi da antropologo sul contesto e i personaggi che tratteggia, interessandosi più allo sfaldarsi di un nucleo famigliare che alle guerre tra i clan.
Ed è quest’ultimo aspetto che contiene gli elementi più stimolanti del film: adottando un procedere regolare, pacato, senza picchi emotivi particolari o ribaltamenti narrativi, Munzi dà forma al racconto di una mentalità, di “un’aria”, quella criminale, che avviluppa inesorabilmente tutti i personaggi e s’insinua nei volti, nei vicoli e nelle case di un popolo e di una famiglia. Alla minima scossa si risponde con il ripristino dell’ordine stabilito che, immutabile, sembra impossibile da sradicare; ogni piccola ribellione, quindi, che siano i proiettili sparati da Leo o il contatto con la natura in cui si rifugia Luciano, è destinato a ripiombare nel silenzio che tappa occhi e bocche di una comunità.
A un certo punto, però, dopo aver creato la giusta atmosfera e avere introdotto caratteri e dinamiche, ci si aspetta un salto, uno snodo che caratterizzi in maniera incisiva il racconto e conduca la riflessione a nuovi livelli di profondità. Purtroppo, però, l’attesa viene tradita e il film continua in questo suo procedere che da sommesso si fa piatto e, tramite alcune scelte di scrittura prevedibili che lo riportano sui binari ‘inevitabili’ del mafia-movie, perde la sua forza e il suo mordente. La seconda parte della pellicola, quindi, al posto di continuare il discorso ‘antropologico’ e originale proposto all’inizio, ridimensiona le possibilità comunicative dell’opera intera e si rifugia in un campo più sicuro, protetto, senza però esplorare in fondo neanche quello.
Peccato: questo film, solo discreto, ne nasconde un altro, grande e potente, che rimane bloccato al livello della potenzialità.
La frase:
- "Io non sono come voi"
- "E come sei allora?".
a cura di Stefano La Rosa
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