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Stonewall











Nel 1969 la legge federale degli Stai Uniti non permetteva agli omosessuali l’accesso a organi istituzionali. Agli omosessuali era vietata la somministrazione di alcolici nei locali pubblici. L’omosessualità era considerata una malattia da curare anche l’elettroshock.

Con queste lapidarie informazioni sullo stato del clima politico, sociale, umano imperante ancora alla fine degli anni sessanta nel paese in cui si è sempre sventolato il più avanzato liberalismo (anche se per quanto riguarda i costumi, gli Stati Uniti hanno assunto sempre posizioni assai reazionarie) inizia “Stonewall”, ultima prova registica di quel Roland Emmerich autore di fortunatissimi blockbuster quali “Independence Day”, “The Day After Tomorrow” e “Godzilla”.

Stavolta il celebre autore, rinunciando ai soliti compensi faraonici, ha ritenuto doveroso raccontare cosa accadde in quegli anni a Christopher Street, la zona situata nel cuore di New York. La zona era divenuta il ritrovo abituale di tutti gli omosessuali della città, e in cui erano assai frequenti i raid della polizia, che si concretizzavano in vere e proprie spedizioni punitive, rivelando la totale miopia delle istituzioni americane nei confronti di una realtà assai estesa. Realtà che non poteva essere trattata alla stregua di un virus da estirpare. La fazione cattolico-borghese (e, in tal senso, viene in mente anche un altro film che si è occupato di diritti gay, “Milk” di Gus Van Sant con Sean Penn) dettava ancora legge su ciò che poteva essere considerato lecito e cosa no, creando una pericolosa divaricazione tra la realtà e la percezione della medesima, a scapito di una cospicua fetta di umanità che chiedeva solo di poter vivere liberamente la propria sessualità.

Il film segue l’arrivo di Danny Winters (interpretato dal giovane Jeremy Irvine, un biondino con la faccia pulita che ricorda non poco il più celebre Matt Damon) nel famoso quartiere: cacciato dal padre, che aveva scoperto la sua storia d’amore con un compagno di scuola, si ritrovò da solo, squattrinato, e senza la possibilità di iscriversi alla Columbia University, perché i genitori si rifiutavano di inviargli quei documenti necessari all’ingresso nel college. Scopre un mondo vitale, pulsante, creativo, ma anche drammatico, un ghetto dove sono concentrati tutti quegli individui non allineati, che rivendicano il diritto di non doversi nascondere. Ed è proprio allo Stonewall, il famoso locale per soli gay, che Danny viene, in un certo senso, iniziato. Pian piano, da timido ragazzetto di campagna dell’Indiana, prende coscienza del suo stato finché, dopo aver intrecciato tantissimi nuovi rapporti (tra cui quello con un attivista contrario all’uso della violenza), sarà proprio lui ad accendere la miccia di quel durissimo scontro con la polizia che infiammò Christopher Street per giorni interi, inaugurando un percorso di liberazione delle minoranze gay e la nascita di tantissimi movimenti.

Emmerich ha il pregio di prodursi in una narrazione che, seppure un po’ prolissa (il film dura 129’), affronta con una certa leggerezza di tocco il mondo dell’omosessualità, e dunque lo spettatore segue con duratura attenzione lo svolgimento dei fatti, la vicenda personale del protagonista, i rapporti difficili, l’indigenza, la tendenza all’auto ghettizzazione dei soggetti presentati, fino alla ‘necessaria’ esplosione di violenza finale, unico modo possibile per interrompere un trattamento inaccettabile, che doveva essere riformato per intero. Il regista sottolinea proprio la necessità di una reazione brutale, laddove certi decisivi passaggi inevitabilmente lo richiedono, e ciò che stupisce è che proprio gli individui più effemminati erano, paradossalmente, quelli più arrabbiati e disposti allo scontro fisico con i tutori dell’ordine. Chi non aveva più nulla da perdere non esitò un attimo a scagliarsi sacrosantamente contro coloro che esercitavano un’inammissibile oppressione.

Buon film, dunque, che porta a conoscenza di una pagina di storia che aveva bisogno della giusta diffusione. Un’opera necessaria che, vista la fastosa produzione che la sostiene, potrà, per fortuna, giungere a un folto pubblico.

La frase:
"Io rubo, perché non ho niente, prendo tutto ciò che posso".

a cura di Luca Biscontini

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