This Must Be the Place
Non è cresciuto Cheyenne, rockstar cinquantenne un tempo famosa, che vive, in equilibrio su una depressione sempre vigile, in una magione nei dintorni di Dublino, accanto alla solida e affettuosa moglie Jane. Cheyenne ogni mattina si alza e si trucca come per un concerto, creando una maschera esagerata che lo nasconde come una coperta di Linus e proteggendosi dietro una vocetta sottile, lenta e infantile come una nenia. Si tira appresso sempre qualcosa Cheyenne: un trolley, un carrello della spesa: àncore per tenerlo saldo, lui novello Peter Pan, ma anche universi di realtà e situazioni irrisolte. Cheyenne, una mattina, dopo aver appreso della grave malattia del padre, decide di ritornare a New York, per incontrarsi, dopo anni, con il genitore. Che troverà già morto e di cui scoprirà un’ossessione: scovare il nazista che, in campo di concentramento, lo aveva umiliato. Cheyenne si troverà invischiato in questa ossessione, che farà sua, in un tentativo di riconciliarsi col padre e con se stesso – anche se ancora non lo sa.
Paolo Sorrentino si trasferisce negli States, per il suo primo film in lingua inglese. Un film sostenuto da più parti e molto atteso, sbarcato a Cannes in concorso con star di prima grandezza, quali Sean Penn, assoluto protagonista, Judd Hirsch, Frances McDormand, Harry Dean Stanton.
Con Umberto Contarello, che con lui collabora alla sceneggiatura, Sorrentino ritrova la sua vena più intimista, che scava nell’uomo per parlare di ciò che ci circonda e ci trasmette l’innamoramento per l’America, per i suoi paesaggi, che sono cinema, per gli interni, soprattutto, per le persone. Da New York al Michigan al New Mexico allo Utah, This Must Be the Place è un vero road movie, che, come tutti i road movie, è una metafora della scoperta di se stessi e degli altri, seguendo una crescita anagrafica mai accettata, perché Cheyenne è un uomo rimasto bambino, che ancora attende risposte, ancora sa incantarsi e vive in un mondo suo, in cui spazio e tempo sono differenti. La figura della rockstar tratteggiata da Sorrentino, e resa viva da Penn, riesce a non essere mai grottesca, a essere credibile, a portare con sé fragilità, dolcezza, sensibilità esacerbata, perché Cheyenne è creta molle sfregiata dalle parole e dagli sguardi altrui, che evita ma che, d’altro canto, desidera. Il paragone con la creatura di Tim Burton, Edward Mani di Forbice, non è avventato: le movenze, la gestualità, le fragilità di Edward le ritroviamo in Cheyenne. Se tutto è visivamente impeccabile (la fotografia è di Luca Bigazzi), se le musiche sono, come sempre, parte integrante dell’opera di Sorrentino (qui Will Oldham e David Byrne, anche in un cammeo – un brano dei Talking Heads dà il titolo al film), ciò che rende This Must Be the Place non del tutto riuscito, è una fondamentale disomogeneità nella narrazione, che procede a balzi, assommando situazioni al limite, personaggi incontrati e abbandonati troppo in fretta, in una bulimia di scene e situazioni che non riesce sempre a risolversi.
La frase:
"La paura dell’aereo non è il tuo unico problema".
a cura di Donata Ferrario
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