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Nuovomondo (The golden door)
"Ammonticchiati là come giumenti
sulla gelida prua mossa dai venti,
Migrano a terre inospiti e lontane;
Laceri e macilenti,
Varcano i mari per cercar del pane"
Così diceva Edmondo DeAmicis nella sua bellissima poesia "Gli emigranti". Era il 1880, poco prima di quella storia che il regista romano (ma di origine siciliana) mette in scena in "Nuovomondo". Una storia che è la stessa di mille altre, quella di una famiglia meridionale (padre, figli e nonna, visto che la mamma è morta) che parte per l'America alla ricerca di un'esistenza migliore. La preparazione del viaggio, il travaglio del soggiorno in nave, l'arrivo ad Ellis Island, lì a due passi da quella Statua della Libertà che per quasi un secolo ha annunciato gli Stati Uniti ai nuovi venuti.
Una storia che conosciamo (o almeno dovremmo) bene, quella sicuramente di tanti nostri parenti lontani e vicini. L'abbiamo studiata a scuola, ce l'hanno raccontata i nostri nonni o i nostri genitori, ne abbiamo letto nei libri, sentito in alcune canzoni e visto in molti film. Sarebbe facile quindi pensare che di un film del genere non ce ne sia bisogno. Così come sarebbe retorico affermare che, di questi tempi, vedere come stavamo quando eravamo noi ad emigrare è imprescindibile per capire le sofferenze di chi oggi cerca nella nostra Terra il nuovomondo.
Il film di Crialese non è questo, ma cinema. Grande cinema. E' racconto epico, è realismo e sogno al contempo. E' potenza delle immagini (l'inquadratura del distacco della nave dal porto è eccezionale) e commozione familiare. Racchiudere la sua bellezza in un qualche messaggio "politico" sarebbe sminuirlo. Non per forza bisogna attualizzare, non per forza c'è da andare oltre a ciò che ci viene narrato. Anzi, proprio in questo caso (così come ha affermato lo stesso regista in conferenza stampa) è bello riflettere su noi stessi, noi italiani, sulla nostra identità, il nostro ingegno (vedasi il test di Vincenzo) e la nostra umanissima ingenuità. Popolo di furbi, ma anche di sinceri, di persone che parlano con il cuore in mano pur di rimanere con la propria famiglia.
Vincenzo il vecchio mondo e Lucy/Luce il nuovomondo. L'uno così fuori dalla realtà quanto la seconda consapevole di tutto, e quindi triste, sola. La bravura di Crialese è nel riuscire a gestire sia la microstoria (quella di Vincenzo) che la ricostruzione storica. Allunga i tempi nella parte centrale per far percepire quanto stancante potesse essere il viaggio, immette parti oniriche per simboleggiare il sogno di questi viaggiatori e finisce per raccogliere il tutto nelle due scene finali, la drammaticità del dialogo con i "giudici d'ammissione" e la magia del mare di latte, che sono la summa di tutto il suo lavoro. Non c'è voglia di infierire su chi ci accolse, non di provare pietà per i suoi protagonisti. Solo raccontare, perché certe volte un ricordo basta per dire mille cose.
La frase: "-Quante gambe ha un cavallo?
-Quattro
-E un cavallo e una gallina?
-Quattro e due
-Che fanno....?
-Camminano!".
Andrea D'Addio
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