Race - Il colore della vittoria
“Race – Il colore della vittoria” non è soltanto un biopic sulla vita del campione Jesse Owens, è la storia di un uomo che sfidando i pregiudizi e mille difficoltà ha realizzato un sogno impossibile.
Una storia del genere era difficile da portare sul grande schermo perché si poteva sbagliare profanando un atleta quasi divino per gli amanti dei Giochi Olimpici e per tutti gli afro americani. Ci sono già stati grandi film sullo sport, basta citare il recente “Rush” e i vecchi capolavori “Ogni maledetta domenica”, “Million Dollar Baby” e un altro biopic “Alì”.
Il regista Stephen Hopkins, famoso al grande pubblico per “Nightmare 5” e “Predator 2”, qui si mostra come un ottimo direttore d’orchestra riuscendo a dirigere splendidamente Stephan James che conferma di essere uno degli astri nascenti più importanti tra gli attori di colore americani dopo il brillante “Selma”.
Stephan non solo riesce ad interpretare benissimo le imprese sportive di Jesse Owens, riuscendo dopo una lunga preparazione a simularne lo stile e rendendo realistiche le gare, ma anche e soprattutto il Jesse più privato: prima padre affettuoso, poi compagno pentito e infine icona alla lotta razziale.
Se le Olimpiadi del 1936 si sono disputate lo si deve soprattutto alla mediazione, più o meno lecita, di Avery Brundage (Jeremy Irons), che riuscì a convincere il CIO Americano dell’importanza di partecipare mettendo da parte la politica per l’esclusivo interesse dello spirito sportivo.
Il plauso maggiore però va all’eccezionale interpretazione di Jason Sudeikis nei panni dello storico coach de “Il Figlio del Vento” Larry Snyder.
Il film è anche il racconto della loro straordinaria amicizia in nome di una medaglia d’oro che Larry ha buttato via, ma che non vuole veder sfuggire a quello che forse resta ancora oggi il più grande atleta della storia delle Olimpiadi. Il film è incredibile perché riesce a fare politica con lo sport, due cose come detto non dovrebbero mai mischiarsi, ma lo fa con delicatezza mettendo le due cose su due diversi binari e senza mai dare l’impressione di mischiarle.
Prima di essere un film contro il razzismo questo è un film sui sogni di un ragazzo diventato leggenda e i sogni non hanno colore. La parte sicuramente più interessante è quella delle gare olimpiche, con l’ausilio di un doppiatore d’eccezione come Federico Buffa, e la sempre splendida presenza della Carice Van Houten de “Game of Thrones” come regista delle prime Olimpiadi registrate su pellicola.
Il confronto e il gioco di inquadrature tra Jesse Owens e Goebbles riesce a trasmettere pathos e adrenalina: il generale tedesco crede di essere il vincitore dei giochi, ma in realtà a batterlo è il ragazzo con la divisa americana. Non c’è pericolo di spoilerare perché qualunque amante dello sport sa le imprese di Jesse Owens e non si può non parlare dello straordinario gesto di sportività di Luz Long che aiutò il rivale americano scatenando poi le ire del regime. La loro amicizia oltre ogni confine è l’ennesima storia nella storia nella vita di questo straordinario atleta, unico nella storia.
Hitler non diede la mano a Jesse Owens dopo le vittorie, ora in sala il pubblico può darla a Stephan James andando a vedere un film davvero bello e meritevole.
La frase:
"I record non sono niente, arriva un ragazzino e te li porta via. Una medaglia d’oro resta".
a cura di Thomas Cardinali
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