Jarhead
Tre anni dopo "Era mio padre", Sam Mendes torna dietro la macchina da presa per dedicarsi a Jarhead (termine gergale per indicare i Marine), tratto dall'omonimo best-seller scritto nel 2003 da Anthony Swofford, soldato di terza generazione inviato, nel 1990, nel deserto dell'Arabia Saudita per combattere la prima Guerra del Golfo. Quella tratteggiata da Swofford è un'immagine della guerra molto diversa dalla solita che viene riportata dai giornali o dalle televisioni, in quanto descrive pozzi petroliferi che sputano fiamme nella notte come comete precipitate sulla terra, soldati rissosi, impolverati, eccitati e terrorizzati all'idea che dalla collina accanto possa partire da un momento all'altro l'attacco nemico, ragazzi improvvisamente catapultati in un territorio implacabile, reclute che cercano di distrarsi improvvisando una partita di pallone con le maschere antigas e che aspettano con ansia lettere e materiale hardcore. Quindi, non gli eroi dall'uniforme impeccabile che popolano l'immaginario collettivo, ma giovani sudati in equipaggiamento da deserto, con la passione per la musica rock, una predilezione per la pornografia ed una crescente e insoddisfatta sete di sangue. Giovani che, sullo schermo, hanno i volti di Jake Gyllenhaal (Donnie Darko), nei panni di Tony "Swoff" Swofford, trasformatosi da soldato di terza generazione con vaghe aspirazioni eroiche in veterano che conosce il vero costo della guerra, di Peter Sarsgaard (Flightplan-Mistero in volo), che è Troy, apparentemente imperturbabile, ma con una natura impetuosa e volubile nascosta, e dei Premi Oscar Jamie Foxx (Ray) e Chris Cooper (Il ladro di orchidee), rispettivamente il sergente di stato maggiore Sykes ed il tenente colonnello Kazinski. All'interno di un prodotto che, dominato dalle soleggiate immagini generate dalla fotografia di Roger Deakins (Prima ti sposo, poi ti rovino), apre ricordando non poco Full metal jacket (1987) di Stanley Kubrick, per poi porre subito in evidenza, purtroppo, nella lunga sequenza commentata da Don't worry be happy, il suo difetto più grosso: quello di sfruttare eccessivamente le canzoni che compongono la colonna sonora, rendendo l'insieme spesso fracassone, ma, soprattutto, fornendo situazioni che, se da un lato possono risultare "orecchiabili" e coinvolgenti, dall'altro tendono erroneamente ad affievolire la crudezza del dramma in questione. Poi, al di là del fatto che siamo forse dinanzi alla pellicola in cui vi è il maggior sfoggio gratuito del verbo "to fuck", non mancano momenti che, nelle intenzioni, sarebbero voluti risultare drammatici, rivelandosi, invece, tremendamente ridicoli; la sola sequenza in cui i protagonisti visionano una vhs con "piccante sorpresa" registrata non avrebbe certo sfigurato in una commedia sexy da caserma di Nando Cicero. Mendes era forse smanioso di rievocare la tanto gettonata satira al vetriolo del suo American beauty (1999).
In conclusione: lungo, noioso, grottesco, ma, soprattutto, inutile!

La frase: "Io sono niente senza il mio fucile, il mio fucile è niente senza di me".

Francesco Lomuscio

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