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I gatti persiani
Iran 2009. Nella capitale Teheran, i gatti sono costretti a nascondersi nelle abitazioni e non possono palesarsi liberamente al mondo esterno per non incappare nell’ipocrita e ottusa morsa del proibizionismo nazionale. Un lungometraggio sui felini? Evidentemente no, ma come si può intuire i gatti persiani non sono altri che i giovani iraniani e questo film, con grande energia e notevole coraggio, lancia un urlo di protesta nel deserto della legittimità morale della più popolosa città di quella che fu la Persia.
L’autore della denuncia è il regista kurdo-iraniano Bahaman Ghobadi che, stanco di attendere invano i permessi di rito per realizzare un progetto sulla pena di morte intitolato "60 secondi su di noi", acquista una camera digitale (tutte le attrezzature 35mm appartengono allo Stato e per affittarle bisogna avere un’autorizzazione a cinematografare, ndr) e comincia a provarla filmando clandestinamente un gruppo di musicisti indipendenti; questa la stravagante genesi dell’idea alla base de "I gatti persiani" (tit.int. "No One Knows About Persian Cats"), che sarà poi girato - giocoforza - a tempo di record in meno di venti giorni.
Motore dell’iniziativa e oggetto del racconto è la musica, nella sua accezione più modaiola: l’indie rock, come è denominato (non solo) nella pellicola; ovvero una macro-corrente di musicisti indipendenti, con all’interno i generi più disparati. Non è un caso che Ghobadi abbia cercato riscatto nella musica, in quanto è da poco diventato un cantante (appare in questa veste anche in una scena all’inizio del film) e proprio durante le registrazioni senza licenza del suo primo album ha incontrato in studio Ashkan e Negar, il ragazzo e la ragazza protagonisti della pellicola, due artisti autentici della scena underground locale, che hanno un solo desiderio: fare musica. Facile, si potrebbe pensare, ma non in territorio islamico, dove la musica viene giudicata impura – in quanto fonte di allegria – e per chi intende "peccare" a suon di basso e batteria non resta che infrattarsi o meditare una fuga all’estero.
È proprio quello che decidono di fare Ashkan e Negar, che per il rock sono pronti a rischiare tutto quanto posseggono. Servono passaporti e visti, allora si rivolgono ad un istrionico commerciante di DVD pirata di nome Nader che – per amor dell’arte – li aiuta indirizzandoli da un esperto falsario, certo di recuperare quei documenti indispensabili per emigrare a Londra, dove "i gatti" vogliono suonare davanti ad un pubblico libero e lontano dal bieco sguardo del Regime.
Intanto, per riuscirci, devono anche mettere in piedi una band che si rispetti; è qui che Ghobadi ci porta nei meandri della città islamica filmando una sorta di maxi-videoclip dove, tra tetti, cantine, stalle e sgabuzzini vari, si avvicendano dieci band per quarantacinque minuti di alternative-rock, pop, metal, world-music e rap dal testo graffiante, scoprendo il velo (di vergogna) che avvolge, offuscandola, una Teheran in fermento sociale e culturale.
"I gatti persiani" è probabilmente la pellicola iraniana più "giovane" e spiazzante di sempre, distante dal classico stile caratterizzato da villaggi abbandonati e intellettualità a là Kiarostami; al contrario, Ghobadi ci mostra con la sua digitale una Teheran metropolitana e vitale, dove si parla un linguaggio moderno e la vita trascorre scandita da un senso di repressione manifesto.
Il grande merito del regista è soprattutto questo, perché, al di là di qualche episodio memorabile (Nader, che per evitare una multa salata, inscena una difesa tragicomica o l’incontro dal falsificatore di passaporti), la narrazione filmica funziona in parte e contiene – presumibilmente per via delle riprese eseguite in un clima estremo* e alla velocità della luce – qualche passaggio un po' gratuito e poco convincente, compreso il finale, giustamente amaro, ma telefonato e abbastanza debole.
Tuttavia, il film ha – per tutti – un alto valore simbolico e rappresenta, per i ragazzi iraniani, un piccolissimo ma importante passo in avanti verso un futuro meno sottomesso e un epico inno (rock) alla vita. Il grido di una generazione che, forse, cambierà la sua terra.
*Durante le riprese, Ghobadi e la sua troupe sono stati fermati dalle forze dell’ordine in due occasioni (poi rilasciati dopo aver corrotto le guardie con dei DVD, ndr), mentre il regista è stato arrestato e imprigionato per sette giorni al rientro dal Festival di Cannes 2009 (dove aveva appena ritirato un premio nella sezione “Un Certain Regard”).
La frase:
- "Avete chiesto un'autorizzazione?"
- "Ma quale autorizzazione, non rilasciano nessuna autorizzazione!".
Nicola Di Francesco
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