Hermano
Si parte - per lo scritto - dal Premio Solinas del '96 per il miglior soggetto originale, e nel film da una indefinita località di mare nel sud Italia (location pugliese). Antonio è il ventiseienne figlio di un appartenente ad un clan, morto, che il boss considerava come un fratello. Ora anche lui lavora per l'organizzazione, e deve portare un'automobile a Stoccolma.
Ad un autogrill viene coinvolto in una rissa, e corre in suo aiuto Carlos, un maturo e alcolizzato autostoppista argentino. Stivali, capelli lunghi e catena d'oro al collo, l'uomo racconta di essere cresciuto tirando pugni in strada prima di diventare pugile professionista, soprannominatosi "angelo della morte". Ma poi, persa la sfida per il titolo all'inizio degli anni '70, era stato squalificato a vita per l'aggressione a chi aveva truccato l'incontro. Ora vuole combattere nuovamente con l'avversario di allora, che vive in Svezia. Sebbene dica di aver vissuto fin da piccolo in un ambiente malavitoso, Antonio è invece uno sprovveduto che il compagno di viaggio provvederà a tirar fuori dai guai in diverse occasioni - generoso proprio come un paterno "hermano" - anche se la loro è una frequentazione di pochi giorni.
Una sofferta, ritardata di anni e infelice uscita per questa quarta regia di Giovanni Robbiano, a causa di grossi problemi produttivo-distributivi, nonostante sia stata realizzata con il contributo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. L'opera è un road movie che rivela i suoi pochi mezzi, ma con begli scorci naturali e metropolitani cadenzati dalle polaroid di Antonio, appassionato di fotografia, e le curiose brevi parti di Paolo Villaggio ed Emir Kusturica. Pecca di qualche ingenuità al pari del protagonista, e proprio come nella storia chi se ne fa carico è la vitalità di Rade Serbedzija (Carlos), un corpo e un viso con tutti i segni di una vita senza più ponti, nascosta tra le poche cose del borsone che si porta sempre in spalla.
La frase: "Il mio è un naso da boxeur? No, e lo sai perché? Ero troppo veloce, nessuno poteva colpirmi".
Federico Raponi
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