Chéri
Dopo poco più di vent’anni, Stephen Frears torna a cimentarsi con un testo di un autore francese. Nel 1988, il regista inglese, mise in scena "Le Relazioni Pericolose" di Pierre Choderlos de Laclos, ora è la volta di due libri della scrittrice Colette, "Cherì" e "La fin de Cherì". Per farlo, si affida allo stesso sceneggiatore di allora (Christopher Hampton) e soprattutto richiama a sé quella Michelle Pfeiffer, che già aveva lavorato con lui nel 1988, affidandole proprio un ruolo non troppo dissimile da quello che nelle "Relazioni Pericolose" fu di Glen Close, ossia quello della cortigiana che fa della propria bellezza e avvenenza, ma anche e soprattutto della propria intelligenza, gli strumenti della propria "professione".

Film girato con l’eleganza e l’intelligenza proprie del regista inglese, "Cherì" racconta della relazione amorosa tra una bellissima e raffinata cortigiana Lea de Lonval, la Pfeiffer per l’appunto, e Cherì, un giovane e bel ragazzo, figlio di una delle vecchie rivali e colleghe (Katy Bates) di Lea. La storia, paradigmatica di un’epoca (la Belle Epoque), dove a grandi e trascinanti amori seguivano altrettante delusioni dirompenti e sconvolgenti, può anche diventare, se vista con un occhio da analista, anche l’emblema dello scorrere della vita, se si affidano ai tre personaggi principali valenze didascaliche. Scontro generazionale, come in fondo avveniva anche nel libro di Laclos, dove classi e ceti sociali sembrano annichilite dallo sfarzo di lustrini e candide piume. E Frears coglie perfettamente questa atmosfera rappresentandoci un ambiente del tutto avulso dalla realtà che lo circonda – eppure la prima guerra mondiale è alle porte – come una favola della quale trarre un’amara morale. Attenzione, dunque, alla ricostruzione degli ambienti, la Parigi di inizio secolo scorso, sospesa tra l’antico splendore napoleonico e lo stile liberty che si impone, una cura particolare dei colori e delle variazioni cromatiche (bellissima la carrellata nel roseto): scene che fanno da sfondo a dialoghi tesi e serrati nei quali gli attori chiamati a duettare (la Bates su tutti) si incastonano perfettamente senza sforare, adeguandosi al ritmo da "andantino" a cui tutto il film si ispira. Ritmo e cadenze, spesso sottolineate da una colonna sonora molto presente e alla quale si affida un ruolo di prezioso accompagnamento.

Un film raffinato, leggero fino che non mette in mostra l’amarezza di fondo che lo attraversa.

La frase: "Il divorzio sarà senz’altro più allegro del matrimonio".

Daniele Sesti

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