Carmel
Carmel, insieme a Lullaby to my father, costituisce nella filmografia di Amos Gitai un ideale dittico della memoria, due ritratti paralleli che insieme raccontano un'unica storia. Quella che è emerge dal racconto di queste due pellicole è una biografia familiare dello stesso Gitai. L'unico problema è che in quest'operazione l'unico risultato sembra quello di creare un album di ricordi a solo uso e consumo della famiglia Gitai.
Si assiste così alla giustapposizione di varie sequenze: un racconto della distruzione del tempio da parte dei romani; il rapporto tra Gitai e il figlio che ha deciso di arruolarsi; le esperienze belliche dello stesso Gitai; alcuni episodi della vita della madre di Gitai, che a un certo punto si racconta in un filmato di qualche decennio prima. Il regista israeliano non sembra interessato a far emergere un racconto universale o anche solo nazionale da questo collage eterogeneo. Anzi, si ha la sensazione di essere lasciati da soli di fronte a una scatola di fotografie di uno sconosciuto. Di fronte a una massa enorme di immagini lanciate alla rinfusa non resta altra soluzione che arrendersi, e sperare che finisca presto.
Eppure ci sarebbe stato tanto da raccontare, il modo in cui a ogni generazione di Israele corrisponda una guerra diversa e l'effetto che ha socialmente e culturalmente in primis. Tutto però resta sospeso, come in una chiacchiera da officina in cui viene semplicemente enunciato che la radio dice mezze verità e mezze bugie. Forse il senso di tutto questo è un'altra sequenza, in cui Gitai pulisce accuratamente le tombe di famiglia. Un gesto che merita rispetto ma he dovrebbe restare, probabilmente, privato.
La frase:
"Devi essere autentico, sennò davanti alla macchina da presa si vede che fingi".
a cura di Mauro Corso
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