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American Vertigo
Il viaggio del filosofo Bernard Henry Levì, attraverso l'America post 11 settembre, ripreso dal regista Michko Netchack, in un "on the road" che è un vero e proprio documentario sulle contraddizioni sociali, politiche e culturali degli Stati Uniti d'America.
Tratto dall'omonimo saggio di Levì, "American Vertigo" intende suggestionare il pubblico con una rapida, rapidissima carrellata che da New York compie due cost to cost, andata e ritorno, passando per la corruzione del monte Rushmore, la povertà di Los Angeles, San Diego e il confine messicano, fino a giungere alla New Orleans sopravvissuta all'uragano e a Guantanamo, ultimo inferno sulla Terra.
Il reportage di Levì prima e Netchack poi, possiede un atteggiamento spocchiosamente francese: le sue critiche, velate di sottile ironia e compassione per la cultura americana, hanno la pretesa di elevarsi a Verità assoluta sulla politica di Bush e su quello che gli americani hanno creato da Kennedy fino ai giorni nostri. Un tale atteggiamento di arroganza nei confronti di tutta la cultura americana viene sottolineata dalla stessa costruzione erratica del documentario: una mappa su fondo nero disegna il tragitto che il regista compie, commentato dalle parole di Levì. Ma su ogni tappa in cui gli autori si soffermano la permanenza è breve, troppo, tale da risultare istantanea: tempo insufficiente per il pubblico, incapace di fronte a simile brevità di poter comprendere pienamente il pensiero del filosofo; come pure inadeguato per convincere lo spettatore delle sensazioni e delle percezioni esposte. Tutto il discorso di Netchack e Levì appare insomma piuttosto superficiale e approssimativo, difetto questo enorme se si considera la natura critica del documentario.
Dal punto di vista puramente filmico solo il ritmo fluido di "American Vertigo" salva la pellicola dalla noia, ma alla fine non basta. Come non bastano due parole spese sulla comunità indiana d'America per capirne i complessi risvolti culturali, sociali e antropologici che le persecuzioni yankee hanno avuto su di loro; non sono sufficienti pochi sfuggenti commenti ad affrontare il tema delle armi e della pena di morte per comprenderne le conseguenze sociali sulla Nazione; non basta far vedere le prigioni di Alcatraz o Guantanamo per condannare un intero sistema; e neppure si può parlare di "sicurezza" e "terrore" solo osservando dal di fuori la povertà di Los Angeles o la desolazione di New Orleans. Insufficienti le critiche di Levì, auto proclamatosi "filosofo", "pensatore", "fabulatore di idee", "chiacchierone superficiale" di temi che non compete, ma che come un dittatore ne assume, momentaneamente, il controllo. Un controllo apparente, fatto di allusioni, di "frasi buttate lì", di citazioni pseudo-colte, ma vuote, come le parole di un uomo che, in assenza di un vera profondità conoscitiva, ruba immagini spacciandole per percezioni poetiche di una realtà non vissuta. "No grazie Levì, le sue idee non ci interessano!". Ritorni pure in Francia, la sua amata patria, superiore di cultura e lingua ad ogni altra, dove insegna e tiene facili dibattiti a studenti "puri" e quindi incapaci di vedere la menzogna. La sua Francia, che nella storia si è fatta strada tra le rivolte, la stessa strada che invece oggi la porta a perdersi in altri territori.
La frase: "...Non si uccidono così anche le grandi città?..."
Diego Altobelli
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