Tomboy
Non è mai facile rinunciare alla verità che ha permesso venissimo accettati da una comitiva, a maggior ragione se quella verità non è la nostra, ma di un altro, uno di un’altra città, di un’altra nazione, magari di un altro pianeta, e che noi abbiamo modellato e plasmato su di noi, come una silhouette che ci segue, giorno dopo giorno. Per questo, quando Laure viene trascinata dalla madre per raccontare a tutti chi sia davvero, si rifiuta e cerca di scappare, perché le speranze, i sogni, le necessità, seppur per poco, hanno fatto di questa bambina di dieci anni, una donna felice, nella sua minuscola dimensione infantile. Chi non ha mai desiderato essere diverso, essere qualcuno altro? Chi non ha mai anelato, anche solo per un attimo, di avere la vita degli altri? E soprattutto, chi non ha mai serbato un segreto?
Laure (Zoé Héran) è la protagonista di Tomboy (inglese per "maschiaccio"), vincitore del Teddy Award al Festival del Cinema di Berlino, ottenendo un ampio plauso da parte di pubblico e critica italiana e estera. Secondo lungometraggio della francese d’origini italiane Céline Sciamma, Tomboy approderà nelle sale italiane il prossimo 7 ottobre.
Appena arrivata in un nuovo quartiere di Parigi con la sua famiglia, la piccola francese decide di crearsi una nuova identità: un po’ per il modo in cui si veste, un po’ per i capelli corti spettinati, un po’ perla sua abilità nel calcio, si presenta agli altri bambini come Mickael, spacciandosi per maschio. E la motivazione a questa decisione è probabile che la si debba ricercare nella sua stessa età: l’età dell’infanzia, l’età dei segreti, l’età dei giochi e dei misteri personali.
Laure ha 10 anni. Ha una sorella più piccola, Jeanne (interpretata da una bravissima Malonn Lévana), ed è figlia di genitori che la amano e la educano a dovere. Ma per quanto il loro piccolo mondo familiare possa apparire tranquillo, l’atmosfera di cui è satura viene alterata dai continui traslochiai quali i quattro membri della famiglia devono sottostare. Traslochi che non ci vengono mostrati, ma è suggerito che siano dovuti al padre di Laure, la cui vita al di fuori della casa viene solo accennata, ma non approfondita, così come non ci vengono dati dettagli circa il lavoro e la terza gravidanza della madre: perché l’intero film è sulla piccola Laure.
È sua la storia, il quadro dipinto minuto dopo minuto. La famiglia fa solo da cornice. Al massimo viene concesso di entrarealla piccola Jeanne, perché il segreto di spacciarsi per un maschio, Laure lo tiene per sé anche con lei. Ma quando lo scopre, pur di rendere maggior credito alla verità che s’è creata attorno, Laure non si arrende e si dimostra disposta a corromperla, a farsi ritrarre e a farsi tagliare i capelli da lei, e infine addirittura a rimediare ad un pezzo di plastilina nel costume pur di ottenere un ulteriore briciola di virilità.
È questo il mondo creato da Céline Sciamma, il cui parterre di piani-sequenza sui dialoghi, senza lo stacco classico del campo-controcampo, sollevano lo spettatore dai posti in platea e lo lasciano entrare nella pellicola, quasi fosse un membro della famiglia, quasi fosse un bambino tra i bambini, che gioca con gli altri, che condivide il piccolo segreto di Laure, e che, in fondo, lungo la sceneggiatura quasi accetta, desiderando meramente che non venga mai scoperta.In soli 84 minuti, Sciamma riesce a dare vitaad una trama interlacciata di scena in scena, che ondeggia come l’infanzia di Laure tra la semplicità delle mura di casa e una suspense di puro stile hitchcockiano, concentrata tanto sui silenzi, e che così prosegue, dritta e lineare, fin quando la verità viene a galla, e con essa il perdono.
La frase:
"Laure. Je m’appelle Laure (Laure. Mi chiamo Laure)".
a cura di Ivan Germano
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