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King Kong.
Orme di un cinema che fu...
di Andrea D'Addio
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Insomma, tanto è stato fatto per realizzare il selvatico scimmione, che certo non è un debuttante al cinema. Se c'è un elemento caduto nell'oblio dopo la prima versione del 1933 è la sua natura sostanzialmente romantica e pacifica, non di aggressore, ma di aggredito.
Che Jackson volesse grattare un po' più a fondo della semplice spettacolarizzazione del personaggio lo si capisce fin dai primi fotogrammi. Siamo nella New York della grande depressione e sprazzi di vita quotidiana si alternano con attimi di uno spettacolo di vaudeville. In sala sono pochini, ma si divertono. A teatro la gente trova il modo di distrarsi, purtroppo però quando c'è crisi la prima cosa ad esser tagliate sono le spese per lo svago. Chiudono i locali, muore lo spettacolo. A rimanere è giusto il cinema, un cinema nonostante tutto in crescita e che conoscerà a breve l'avvento del sonoro. E' questo il sogno della nostra protagonista Ann Darow: il cinema. Lei che a teatro è sempre stata "lo" spettacolo" vuole entrare in questa che ormai assume sempre più le caratteristiche dell'industria: finanziatori, strategie di marketing ("la gente vuole vedere sempre un bel seno!"), guadagni facili, raccomandazioni e produttori che pensano che per fare film bastino scenari mai visti prima. Del vecchio modo di fare spettacolo è rimasto giusto Jack Driscoll lo sceneggiatore, innamorato del teatro, ma comunque illuso come altri dal fascino dall' "Hollywood modus-operandi", impersonato dal regista/produttore Carl Denham (Jack Black). E' lui a tenere le redini del gioco, lui a mentire alla sua troupe prima sulla destinazione del viaggio, poi sulle motivazioni che lo spingono a realizzare il film sull'Isola del teschio. E' la gloria personale che gli interessa: il suo spirito d'avventura è solo ambizione, nulla più. E' il paradigma di tanti altri produttori cinematografici, tanto vogliosi di un successo da dimenticare che si parla d'arte.
Tradita è la bellezza e la bravura di Ann, tenuta fino ad allora sempre ai margini del mondo dello spettacolo e costretta a rubare una mela pur di sfamarsi, tradito è Jack Driscoll furbescamente intrappolato nella nave in partenza, traditi sono i vari compagni di viaggio di Carl, dal fotografo all'operatore, che pensano di sacrificare la propria vita in nome del "cinema".
King Kong diventa quindi il loro "liberatore". La sua grandezza è quella di un'arte che non sopporta la prepotenza delle logiche commerciali, il suo amore destinato ad una bellezza (Ann) costretta ad appassire in una pellicola mediocre, la sua ferocia quella di un amante tradito. E così King Kong diventa colui che si ribella ad una sceneggiatura confusa, che distrugge un teatro troppo sfarzoso, che ammira la natura meravigliosa da un piccolo dirupo, o da un grattacielo.
Lui, "l'effetto speciale" nemico e suo malgrado simbolo allo stesso tempo, di uno spettacolo senza anima, uno spettacolo che uccide la tenerezza di un abbraccio a due passi dalle nuvole.
Un modo di interpretare il "mostro" che purtroppo il primo remake (prodotto da DeLaurentiis nel 1976) aveva dimenticato di analizzare. Quando si ha a che fare con grossi budget e personaggi già di per se caratteristici, è facile pensare che il film si faccia da solo.
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