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RocketmanLa recensione del film a cura della Redazione di FilmUP.com di Francesco Lomuscio20 maggio 2019Voto: 6.5
“Mi chiamo Elton Hercules John e sono un alcolizzato, e un cocainomane, e un sessuomane”.
Aggiungendo, poi, di essere anche dipendente da shopping, a parlare è il Taron Egerton di “Kingsman: Secret Service” che, abbigliato con un grottesco costume diavolesco, entra in una stanza in cui si trovano alcune persone sedute in circolo alle quali raccontare la storia del suo personaggio. La storia del britannico classe 1947 Reginald Kenneth Dwight che tutti abbiamo imparato a conoscere come Elton John (qui anche produttore esecutivo) e che viene portata sul grande schermo da Dexter Fletcher, ovvero colui che – pur senza essere accreditato – ha curato parte del chiacchieratissimo “Bohemian rhapsody” di Bryan Singer, biopic riguardante Freddie Mercury e i Queen. Biopic da cui l’operazione in questione, però, si distacca totalmente per tipologia fin dall’apertura con “The bitch is back”, rivelandosi un musical ancor prima che il semplice e lineare resoconto della vita di colui che ci ha regalato, tra le altre, “It’s me that you need” e “The one”. Brani purtroppo assenti nel corso delle circa due ore di visione che, tra una “I want love” e la hit che dà il titolo al film, spaziano dalla complicata situazione familiare con madre Bryce Dallas Howard fedifraga e padre Steven Mackintosh esente da manifestazioni d’affetto al matrimonio con la Renate Blauel interpretata da Celinde Schoenmaker. Senza contare, ovviamente, la relazione con il manager John Reid alias Richard Madden e la lunga amicizia che lo ha legato allo storico collaboratore Bernie Taupin, cui concede anima e corpo Jamie Bell; mentre, bravo anche nell’emulare la mimica del musicista, il già citato Egerton sfoggia una performance decisamente lodevole. E, se, tra una prima esibizione negli Stati Uniti eseguendo “Crocodile rock” e un’altra alle prese con la “Pinball wizard” degli Who, appare evidente l’intento di sfruttare i successi del mitico Elton in maniera tutt’altro che cronologica al solo fine di generare le diverse situazioni cantate (una delle migliori è, di sicuro, quella sulle note di “Saturday night’s al right for fighting”), a differenza del sopra menzionato lungometraggio che ha portato l’Oscar a Rami Malek si effettuano scelte narrative meno canoniche e maggiormente mirate al mix di immagini onirico-allucinate e dinamiche da videoclip. Un mix che, nell’inscenare l’escalation del timido pianista prodigio di provincia diventato una delle figure più iconiche della cultura pop, non manca, oltretutto, di ostentare sui suoi rapporti omosessuali nell’intimo e sui lati negativi, a cominciare dai vizietti di cui sopra. Un aspetto che, dunque, provvede ad accentuare ulteriormente la disuguaglianza con il più edulcorato operato singeriano, di sicuro capace in maniera più facile di regalare emozioni allo spettatore. Probabilmente perché, trattandosi del riassunto in fotogrammi della vita di un idolo del rock, a dispetto di quanto fece storcere il naso a parte della critica – che accusò l’insieme di non aver accentuato i retroscena scabrosi di Mercury – era proprio il lato relativo alla nascita e alla composizione dei diversi pezzi quello interessante. Un lato mai approfondito, invece, in “Rocketman”, che, seppur superiore alla media, sguazza in mezzo a “Your song”, “Don’t go breaking my heart” e “I’m still standing” con più ricerca estetica e meno cuore rispetto a “Bohemian rhapsody”. La frase dal film:
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