Mi sembra la copia di un film del 2002 che trattava lo stesso argometo: Iris, la storia della scrittrice Iris Murdock colpota dalla stessa malattia degenerativa.
Lino Settembre (Fabrizio Bentivoglio) e sua moglie Chicca (Francesca Neri), una coppia borghese di mezza età, vivono nella piena serenità a Roma, due persone soddisfatte dal proprio lavoro, Lui affermato giornalista sportivo al Messaggero, e Lei insegnante universitaria di filologia medioevale. La vita biologica non ha loro dato la possibilità di avere dei figli, ma, come spesso accade, gli ha regalato una condizione che riesce a dare ancor più compattezza alla loro convivenza.
A sconvolgere la vita dei due coniugi, è l’inaspettato malessere di Lino, che accusa buchi di memoria, condizione imperdonabile per un giornalista che partecipa anche a dirette televisive.
Le preoccupazioni di Chicca, che sia qualcosa di più grave che semplici episodi dovuti allo stress, una patologia, trovano conferma, dopo aver sottoposto con uno stratagemma suo marito ad una visita medica specialistica.
Lo stato degenerativo di Lino arriva ad intaccare la sua quotidianità, una condizione difficile da accettare, anche per Chicca che non gradisce l’idea di allontanarsi dal marito. Lentamente ma inesorabile arriva la regressione mentale di Lino che lo riporterà verso la sua adolescenza. L’infanzia come unica memoria che rimane salda nella mente, piedistallo indistruttibile che sorregge un castello di sabbia che si sgretola e cede lentamente al vento cattivo dell’inverno, è un segreto della vita che affascina e fa riflettere.
Ma il film, di P. Avati, non riesce ad avere la stessa incidenza sentimentale della storia, che come in ogni film si raccoglie alla fine, quando le luci della sala si accendono inesorabili e fanno svanire le atmosfere respirate durante la proiezione, lo stesso effetto lo si avverte anticipatamente, già quando il film si accinge ad arrivare verso il finale. Se pur con un inizio impeccabile, che da corpo a questa immensa storia d’amore, l’interpretazione di Francesca Neri, ben diretta per tutto il film, si fredda nel ruolo, come anche la sceneggiatura che strozza il finale, a volte sembra avere dei buchi emotivi, tra i tanti personaggi della famiglia alto borghese di Chiccha, arrivando a dare un cinismo più indotto dalle scelte di partitura, che dal ruolo interpretativo che si vuol descrivere.
Ma la poesia di P. Avati arriva, le immagini dell’infanzia Lino sono da libro Cuore.
Divisionismo cinematografico, per le scene di Lino bambino, tra i campi e le case rurali della provincia emiliana, aiutate dalle musiche strazianti e da una fotografia. Nell’insieme sono poesia di immagini del ricordo, il tema della nostalgia di Pupi Avati è da sempre il suo stile più naturale nel descrivere l’onestà e la semplicità dei sentimenti di provincia, più difficile riportarli nei personaggi delle grandi città, dove l’arredo urbano non aiuta a scolpire le stesse emozioni.
Una sconfinata giovinezza è il giusto titolo per questo film, uno sconfinamento dovuto alla malattia, ma un’occasione per rivivere e richiudere il cerchio della propria esistenza.
Se non fosse per i due protagonisti che fanno del loro meglio, il rest del cast è a dir poco imbarazzante, in particolare le scene di riunione familiare e quella all'ospedale sono a livello di una fiction italiana di terza categoria.. La trama lascia non pochi punti interrogativi, come il lasciare il malato a casa solo nonostante la gravità manifesta della malattia, se succedesse nella realtà si parlerebbe subito di abbandono di incapace.. commento: inverosimile.
Ho sempre amato i film di Pupi Avati, ma quest'ultimo mi ha proprio delusa.
Ammetto di aver provato emozioni realistiche, vista la visione poetica di un storia di malattia così drammatica.
Sono stati molto importanti e, soprattutto, funzionali i continui flashback, perché con essi si potevano vedere meglio i continui cambiamenti del personaggio di Lino, interpretato ottimamente da Fabrizio Bentivoglio da adulto.
Il morbo di Alzheimer non è il solo tema del film, anche la storia d'amore ha una sua parte molto importante e affascinante; Chicca ama il suo Lino con tutta se stessa, ricambiata in egual misura, anche se poi più che marito accanto a sè avrà un figlio e dovrà accudirlo come un bambino.
Straordinaria Francesca Neri, oltre che bellissima e molto sensuale.
Peccato che il regista, per il mio modesto parere, ha trattato i personaggi con poca delicatezza, quasi non avendo rispetto per loro.
Due anime disperate per motivi diversi mandati quasi allo sbaraglio, banalizzando il dolore con un finale poetico fuori luogo.
Peccato che una storia di tale importanza non ha avuto un'impostazione ben precisa: si passava dall'horror, alla favola, dal romantico al drammatico.
Mi sento del tutto d'accordo con il commento di Giulia, e confermo che questo è uno dei film peggiori che io abbia visto (faccio osservare che sono una che sceglie i film sulla base dei giudizi di critica, di amici qualificati e di rubriche specializzate, dal momento che non riesco spesso ad andare al cinema).
Motivazioni: sicuramente tutti i difetti elencati in altre due recensioni qui riportate, come la lentezza, la debolezza della trama, le situazioni inverosimili, mal congegnate e mal recitate (alle penose scene da telenovela della riunione di famiglia e dell'ospedale aggiungo quella della cena di saluto del protagonista in cui le reazioni dei presenti alle prime imbarazzanti parole del suo discorso sono assurdamente esaperate e direi anche fuori dalla realtà), la superficialità estrema nel trattare la malattia, l'inesistenza di dialoghi significativi.
A tutti questi difetti aggiungo il fatto che i personaggi risultano quasi totalmente inespressivi, ci sono elementi inutili (come la serata fallita della protagonista alla conferenza con il collega, episodio appena accennato e che si capisce poco) e ci sono pochissimi momenti nel film che comunicano emozioni e sentimenti, il tutto resta al di fuori dello spettatore e genera solo noia, una sconfinata noia.