L'uomo nero
Vedere già nel corso dei primi minuti di visione, ambientati al giorno d’oggi, il bel Riccardo Scamarcio baffuto e invecchiato, assume i connotati di un’interessante sfida, soprattutto se teniamo in considerazione il fatto che l’interprete di "Tre metri sopra il cielo" (2003) – qui alla sua seconda prova sotto la regia di Sergio Rubini dopo il pessimo "Colpo d’occhio" – dimostra ancora una volta di cavarsela decisamente bene quando gli vengono affidati ruoli lontani dal cinema indirizzato ai teen-ager.
Qui, giovane commerciante scanzonato e un po' vitellone immerso in una vicenda che si svolge negli anni Sessanta, è lo zio del piccolo Gabriele Rossetti, con il volto dell’esordiente Guido Giaquinto, il quale trova in lui conforto dalle tensioni dovute agli sbalzi d’umore del padre Ernesto. Ed è il regista stesso ad interpretare quest’ultimo, capostazione della ferrovia locale che non riesce a raggiungere nell’arte i risultati che sogna, rovesciando spesso le conseguenti tensioni sulla moglie Franca, cui concede anima e corpo Valeria Golino; mentre è l’accento pugliese a farla da padrone e il bambino, tra primi baci e prime fumate, si rende protagonista di diverse marachelle.
Oltre ad immaginare perfino di giocare con il fantasma del pittore francese Paul Cézanne, in quello che, non privo di divagazioni decisamente felliniane (citiamo solo la vedova prosperosa) e simile nel look generale al recente "Baarìa" (2009) di Giuseppe Tornatore, sembra a tratti assumere più i connotati di una surreale recita teatrale che di un lungometraggio cinematografico.
Con Rita Pavone a fare spesso da sottofondo musicale (si va da "Il ballo del mattone" a "Geghegé") e un più che evidente – seppur smentito dal regista – attacco all’universo della critica, per un banale spaccato familiare su celluloide riguardante il temibile ruolo che, in tenera età, si tende ad attribuire ai propri papà.
Fino al termine di 115 minuti di pellicola tutt’altro che incalzanti, caratterizzati da un’inaspettata rivelazione finale, ma capaci anche di testimoniare che Rubini, forse, lo preferiamo quando è davanti alla macchina da presa.

La frase: "Io non voglio essere come mio padre".

Francesco Lomuscio

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