L'homme qui rit
Pubblicato nel lontano 1869, "L’uomo che ride" di Victor Hugo, scritto dall’autore quando venne esiliato dalla Francia per cause politiche, ha goduto di diverse trasposizioni su grande e piccolo schermo, da quella diretta nel 1928 da Paul Leni a una versione curata quarantotto anni dopo dal nostro Sergio Corbucci; fino ad arrivare alla mini-serie televisiva in tre parti che, firmata da Jean Kerchbron, conquistò, allora, un ragazzino di dieci anni che corrispondeva al nome di Jean-Pierre Améris.
Lo stesso Jean-Pierre Améris – regista della commedia "Emotivi anonimi" (2010) – che si occupa di questa nuova rilettura su celluloide riguardante il giovane trovatello Gwynplaine, segnato da un’orribile cicatrice a forma di sorriso sul volto e che, raccolto insieme alla bambina cieca Dea alias Christa Theret, nel corso di una tempesta invernale, dall’artista di strada Ursus, cui concede anima e corpo Gérard Depardieu, diventa il protagonista assoluto del suo piccolo spettacolo.
Ed è il Marc-André Grondin di "C.R.A.Z.Y." (2005) a incarnare questo triste personaggio che, soprannominato, appunto, "l'uomo che ride", attira l’attenzione delle folle ed ottiene un inaspettato successo; tanto che la fama e la ricchezza rischiano di farlo allontanare definitivamente dalle uniche due persone che lo amano realmente per quello che è, ovvero Ursus e Dea.
Perché, in questo caso immersa nella bella fotografia di Gérard Simon, la quale valorizza ulteriormente le costruzioni scenografiche per mano di Franck Schwarz, anche nelle mani di Améris rimane una "favola morale" l’opera di Hugo.
Qui al servizio di un lungometraggio che, considerando anche la tipologia di storia raccontata, da un lato non sembra privo di derivazioni felliniane, dall’altro, invece, sfiora i connotati dell’impostazione teatrale, conferendo non poca importanza alla tutt’altro che disprezzabile prova del cast.
Mantenendo toni tragici e concedendosi perfino una evidente citazione-omaggio all’ultra-classico "L’atalante" (1934) di Jean Vigo, ma senza riuscire a lasciare quel particolare segno capace di spingerci a considerarlo imperdibile.
La frase:
"Il mio posto non è a corte, ma in un misero campo nomadi".
a cura di Francesco Lomuscio
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