La metamorfosi del male
In fatto di pov, William Brent Bell si era già occupato dell’esorcistico “L’altra faccia del diavolo” (2012), affiancato in fase di sceneggiatura da Matthew Peterman come nel caso del precedente “Stay alive” (2006), teen movie in salsa videoludica, e di questa nuova fatica.
Però, nonostante la presenza di immagini provenienti da notiziari televisivi, telecamere SWAT posizionate su armi e caschi e altre di sorveglianza, l’intenzione non è, stavolta, quella di dare al pubblico l’ennesimo falso documentario succeduto al consenso riscosso da “The Blair witch project-Il mistero della strega di Blair” (1999) e “Paranormal activity” (2007).
Quindi, seppur con abbondanza di riprese eseguite in movimento, è un film di narrazione quello in cui troviamo la A.J. Cook di “Final destination 2” (2003) nei panni dell’avvocato americano Kate Moore, che vive insieme alla sua équipe in Francia; dove viene chiamata a difendere Talan Gwynek alias Brian Scott O’Connor, tizio dall’aspetto rozzo accusato di aver brutalmente ucciso una famiglia in vacanza nella campagna locale.
Situazione che, con la decisione di adottare un approccio scientifico per dimostrare l’incapacità fisica dell’uomo di procurare danni ad altre persone, la conduce a scoprire – in una tutt’altro che disprezzabile conversazione in casa con la madre del presunto omicida – che soffre di una particolare malattia genetica ereditaria che è, in fin dei conti, la licantropia.
Licantropia di cui Bell usufruisce non per concepire la solita pellicola d’intrattenimento pauroso popolata di uomini lupo e fantasiose trasformazioni, bensì al fine di confezionare un racconto dell’orrore su celluloide che, al di là della discreta dose di spettacolarità sfoggiata nell’inscenare i massacri infarciti in maniera indispensabile di liquido rosso e crani sfondati, tende ad affrontare la materia senza allontanarsi troppo dal realismo.
È per questo che non si parla affatto di pallottole d’argento e che il licantropo in questione non si manifesta quale zannuto individuo completamente ricoperto di peli e dall’allungato muso lupino, ma sfodera, semplicemente, un look e un modo d’agire (con tanto di grossi balzi da una parte all’altra dello schermo) più vicini, in un certo senso, a quelli di determinati ominidi.
Un look, quindi, che lo rende quasi un inquietante essere primitivo pronto a scatenarsi violentemente quando meno ce lo si aspetta.
Fino al sufficientemente coinvolgente scontro conclusivo di un’operazione che, non priva di immancabili spaventi improvvisi dovuti al sempreverde uso del sonoro, può dirsi tranquillamente riuscita... tanto che possiamo pure sorvolare su effetti digitali che lasciano un po’ a desiderare.
La frase:
"Ho vissuto qui per tutta la mia vita, non ho mai visto niente di simile".
a cura di Francesco Lomuscio
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