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Io, loro e Lara
Non so se l’ultima fatica di Carlo Verdone possa realmente rappresentare una svolta nella carriera artistica del regista ed attore romano, certamente però è un tentativo, come da lui stesso affermato in conferenza stampa, di smarcarsi da un certo tipo di personaggio, il borghese volgare e cialtrone, del quale si dichiara stufo perché "non voglio morire di solo cinema" ma, evidentemente, gettarsi nel periglioso mare dei contenuti e dei messaggi.
"Io, Loro e Lara" rappresenta, quindi, un tentativo, di un cinema leggermente più impegnato e con uno sguardo, sempre divertito e divertente però, verso il sociale. Ci si trasferisce, dunque, in una sfera più intima nel raccontare la storia di un prete di ritorno da una missione in Africa, con una crisi di fede, che cerca rifugio nella propria famiglia dalla quale vorrebbe ricevere un sostegno per i dubbi che lo attanagliano ma nella quale nessuno sembra capace, o disponibile, ad ascoltarlo. Il padre si è risposato con una donna moldava, i fratelli sono preoccupati del patrimonio del depauperamento del quale accusano la nuova fiamma del padre, e la figlia della "matrigna", Lara, ha un grosso problema da risolvere.
Tutti chiedono qualcosa al povero Don Carlo, tutti senza dare nulla in cambio. In più, aggiungiamoci una psicologa sull’orlo di una crisi di nervi che scambia il prete per il proprio marito defunto, ed il quadro, tragicomico, è bello che completato.
In un film che brilla per la coralità dei personaggi, tutti dotati di sufficiente spessore e tratteggio psicologico, volente o nolente, è però la personalità di Verdone attore che spicca tra gli altri. Nonostante le "buone" intenzioni del regista ed autore di cercare di fare un film "diverso", i momenti migliori, i più brillanti, sono proprio quelli in cui la sua verve comica fuoriesce irresistibile ed inarrestabile. Da applausi la (auto) citazione del protagonista di "Borotalco" o la sequenza in cui, per apparire un sacerdote più "credibile", per qualche momento si riveste della maschera del prete untuoso e all’antica delle sue gag alle quali siamo tanto affezionati. Solo nella seconda parte del film quando, dopo un inizio macchinoso e balbettante (forse si è preteso troppo da alcuni attori ancora acerbi per certi ruoli, il discorso funebre della Chiatti sembra la corsa di un acrobata su una fune, ci ha tenuti tutti con il fiato sospeso), l’opera trova un suo equilibrio ed anche una sua nobiltà. Perché quello che si percepisce dal lavoro di Verdone e dei suoi compagni di viaggio, al di là del minore o maggiore valore artistico, è la sincerità dei concetti espressi: tolleranza, accettazione, negazione del pregiudizio, ma anche il tentativo di mettere in luce le contraddizioni della società occidentale, tanto opulenta quanto incapace di vivere serenamente. Idee espresse con la semplicità e la autenticità propria del Carlo Verdone, bravo ragazzo "malincomico", come il Leo di "Un Sacco Bello", impossibile da non amare.
La frase: "Sapete che ve dico? Che me manca tanto l’Africa!".
Daniele Sesti
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