Il servo ungherese
Di nuovo la memoria. Ancora l'Olocausto. Ma questa volta la tragedia di uno dei periodi più oscuri della nostra Storia Europea fa piuttosto da sfondo al desiderio degli autori di parlare di Arte e Letteratura, arti in grado di modificare e sensibilizzare gli animi generando più alte aspirazioni umane di quelle terrene, spesso ben più crudeli.
Attraverso le arti, espressione delle esigenze umane più profonde il protagonista della pellicola diretta da Massimo Piesco e Giorgio Molteni, ebreo ungherese internato in uno dei campi di sterminio tedeschi tenta una rieducazione spirituale di un gerarca nazista e della sua capricciosa moglie. I due coniugi rinchiusi tra le mura di tragicità di quella fabbrica di morte si sono condannati a tormentarsi l'un l'altra nel vano tentativo di trovare un significato a ciò che sono costretti a fare o ad essere. Il servo li conduce così su nuovi territori, in cui la sensibilità ritrova un posto preponderante tanto da permettere loro di guardare ad un mondo di cultura che per indifferenza non hanno voluto o potuto avvicinare.

Mossi dall'idea di osservare l'Olocausto da un punto di vista differente, impegnando così lo spettatore sul tema del sapere che quegli eventi distrussero assieme alle vite che lo contenevano, i due registi costruiscono un'opera cinematografica presuntuosa e ridondante.
Le lezioni tenute dal servo sui quadri di importanti artisti contemporanei o sull'arte del ritratto e i diversi modi di riprodurre sulla tela l'interiorità del personaggio, o ancora la lettura di poesie di autori greci e gli intrinsechi insegnamenti di questi ultimi, sono oltremodo noiosi. Ancor più irritante è però osservare l'accrescersi degli appetiti intellettuali del gerarca e di sua moglie che di colpo comprendono la crudeltà dei propri doveri o desiderano andare oltre la superficialità della propria esistenza.
Tutte disquisizioni assurde e soprattutto improbabili, tenute da attori che in alcuni casi paiono come disorientati da tanta vanagloria e in altri, ben più lampanti, mancano totalmente dei più semplici fondamenti dell'arte interpretativa, necessarie a distinguere l'attore dallo spettatore.

Valeria Chiari

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