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Hafez
“La verità è uno specchio che è stato lanciato sulla terra ed è finito in mille pezzi. Ciascuno di noi ne ha raccolto un pezzetto e ha pensato di possederla. Guai però a chi vedrà se stesso riflesso nello specchio”. Questa è la frase centrale di Hafez, ultimo lavoro del regista iraniano Abolfazi Jalili, un atto d’amore nei confronti di Shams Al-Din Mohammad detto Hafiz, poeta persiano dal XIV secolo ammirato anche dall’occidentale Goethe per la sua raffinata ricchezza di immagini e di impressioni largamente pre-sufiche (dove il sufismo è una corrente mistico-filosofica di difficile definizione in ambito islamico, dotata di componenti estatico contemplative assimilabili ad altre forme di purificazione interiore diffuse in tutto il mondo, dal buddismo fino all’esicasmo). Non dunque un lavoro biografico, ma una ricerca di impressioni che ruotano intorno alla sua figura e alla sua poesia, peraltro perfettamente fruibili anche da parte di chi non conosce né la prima né la seconda.
Un giovane di atteggiamento ribelle supera l’esame per diventare “Hafez”. Egli è cioè in grado di citare il sacro Corano parola per parola, anche se gli viene richiesta un versetto od una parola specifici. Allo stesso tempo questa sorta di libro vivente dimostra di subire una pericolosa fascinazione nei confronti delle donne, del vino e dei versi. Vista la sua capacità di citare a memoria il Corano gli viene affidata la figlia del locale Mufti (l’interprete della legge islamica) di nome Nabat, una straordinaria bellezza esotica proveniente dal Tibet che ha scarsa dimestichezza sia con la lingua che con le Sacre Scritture. L’alchimia tra la bellezza della fanciulla e la poesia di chi dovrebbe solo recitare a memoria si prova devastante per le esistenze dei due, che usciranno sconvolte da questo incontro fatale, consumato all’ombra di una riprovazione collettiva.
Quello che si consuma è in effetti un incontro/scontro tra Legge delle prescrizioni e Sufismo, e il protagonista cammina entrambi i sentieri.
Di fondamentale importanza è la figura del doppio (nel film vediamo infatti un altro personaggio che ha lo stesso nome del poeta) e lo specchio. Poiché secondo il sufismo Dio è presente in tutte le cose, lavando lo specchio il Sufi diventa lo strumento attraverso il quale in un momento di illuminazione estrema la Divinità può riflettersi in sé stessa, raggiungendo l’annullamento dell’io. Qui il rituale viene usato però in maniera impropria, come una forma di ricongiungimento con l’amata, quasi un modo di forzare la mano del destino a proprio vantaggio.
La cosa più importante è che però Hafez è autentico cinema, segno che travalica le conoscenze più o meno limitate dello spettatore, raggiungendo la sua immaginazione con una forza ed un’espressività straordinarie, ricordando, come dice il poeta, che “Nel mondo che ruote l’unica cosa che rimane è l’amore”.
Mauro Corso
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