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FioreLa recensione del film a cura della Redazione di FilmUP.com di Luca Biscontini2016-05-17
“Sally è una donna che non ha più voglia di fare la guerra”: Dafne, dopo aver inaugurato una difficile relazione amorosa all’interno di un carcere minorile, sulle note del celebre brano del cantautore emiliano incede, frettolosa, con un insolito sorriso che le illumina il volto e la fa evadere per un istante dalla cattività, in cui, suo malgrado, si ritrova.
Claudio Giovannesi mostra ancora una volta uno sguardo che sa cogliere l’essenza di una realtà che non concede sconti, e con qualche sparuta pennellata di colore riesce a far sgorgare l’umanità che cova nelle anime dei suoi personaggi, braccati da un mondo che non li ha mai accolti veramente, lasciandoli galleggiare sulla sua pericolosa superficie, giorno dopo giorno, esponendoli all’ineluttabilità di un destino che si compie con matematica esattezza. Dafne (Daphne Scoccia), senza madre e con un padre anch’esso (Valerio Mastrandrea) con problemi con la giustizia, per vivere si arrabatta delinquendo, rubando con freddezza cellulari a chiunque le capiti a tiro. È senza prospettive, e il carcere e lì che l’aspetta, pronto a sussumerla, negandole quel ventaglio di possibilità che dovrebbe essere concesso ad ogni essere umano. Eppure, anche in un luogo così avverso, la giovane protagonista riesce a far spazio all’eccedenza di un evento (l’amore) che magicamente le dona la forza per resistere e continuare a sperare. Josciua (Josciua Algeri), il ragazzo con cui dialoga attraverso la finestra della sua cella, è afflitto per la gelosia che prova nei confronti della fidanzata che non vede da quattro mesi. Prende così corpo un fitto epistolario attraverso il quale i due ragazzi cominciano a rimettersi in contatto con la propria emotività, da troppa tempo trascurata, e che devono reimparare a gestire. Toccante la sequenza del veglione di capodanno, in cui, dopo aver preso parte ad un'improvvisata sfilata di moda, i due, sulle note di “Maledetta primavera”, si lanciano in un tenero ballo, abbracciati, occhi negli occhi: lo spettatore percepisce la vibrazione delle loro anime, per la prima volta strette in un afflato che sembra concedere la meritata tregua. Giovannesi rivela le sue qualità di documentarista, l’affilatezza del suo occhio dà corpo a un’iconografia asciutta, senza fronzoli, non affetta dal desiderio di compiacere, tutto è contenuto, la poesia è sempre fuori campo, anche se, evidentemente, non cessa di riverberare su ogni fotogramma. Non mancano le citazioni, come quello splendido carrello che segue la forsennata corsa di Dafne, lungo la spiaggia, una fuga disperata verso un amore che diviene l’unica fonte di salvezza possibile, e il suo respiro affannato ricorda senza incertezze quello del piccolo Doinel di François Truffaut. Anche il cinema-verità dei fratelli Dardenne viene, nel complesso, rievocato, e queste parentele restituiscono la cifra della bontà di un cinema che, oltre all’indiscusso valore, si rivela assai adatto ad essere esportato. Ottima, infatti, è stata l’accoglienza alla Quinzane des Réalisateur del Festival di Cannes, dove il film gareggia insieme a “La pazza gioia” di Virzì e “Fai bei sogni” di Marco Bellocchio. Il film si chiude su i due ragazzi che, appena sfuggiti al tentativo di cattura di alcuni poliziotti, prendono un treno che non sappiamo dove li condurrà: il futuro rimane incerto, un’atmosfera gravida di funesti presagi incombe sui loro destini. Eppure, come per il Jean-Pierre Léaud de “Les quatre cents coups”, lo spettatore non può che caricarsi di un’infinita indulgenza nei loro confronti, augurandogli di raggiungere un approdo in cui finalmente scrollarsi di dosso le maglie di una sorte troppo spesso avversa. La frase dal film:
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