Padri e figlie
New York, 1989.
Jake Davis (Russell Crowe) è un romanziere premio Pulitzer rimasto vedovo anzitempo e costretto ad occuparsi da solo della figlioletta Katie.
Un disturbo mentale, conseguenza dello stesso incidente d'auto in cui ha perso la vita sua moglie, gli impone però un ricovero in una casa di cura per un periodo in cui la bambina viene affidata alle cure di una coppia di ricchi parenti.
Venticinque anni dopo Katie è diventata un'assistente sociale dedita ai problemi di bambini affetti da disagio.
Incapace di fidarsi del prossimo e restia a legarsi emotivamente ad altri, la ragazza passa la maggior parte del proprio tempo libero concedendosi più o meno a chiunque, in rapporti clandestini che più che soddisfarla esorcizzano la sua paure dell'abbandono.
L'incontro con Cameron (Aaron Paul) però sembra cambiare le cose.
Prima di procedere ad analizzare la quarta fatica hollywoodiana dell'autore de L'ultimo bacio è importante essere chiari almeno su una cosa.
Gabriele Muccino è bravo, dannatamente bravo.
Da un punto di vista tecnico lo è sempre stato, almeno una spanna sopra qualunque altro regista italiano, Sorrentino a parte.
Il problema semmai è in un ego assai ingombrante e fin troppo consapevole della propria bravura che, negli anni, ha rappresentato il più grande limite del regista.
A cominciare da un trasferimento negli States così fortemente voluto che, dopo l'entusiasmo iniziale seguito a La ricerca della felicità e i due flop consecutivi di Sette anime e Quello che so sull'amore, lo ha lasciato con le ossa rotte.
E' lodevole quindi il suo rimettersi in gioco partendo proprio da quel fallimento.
Come nel recente passato, infatti, Muccino prende l'ennesimo lavoro su commissione (la sceneggiatura è opera dell'illustre sconosciuto Brad Desch) ma, in un evidente moto di orgoglio, decide di farne la quintessenza del proprio cinema.
Perché Padri e figlie è una sorta greatest hits di topoi mucciniani, pieno com'è di melodrammatici saliscendi emotivi, carrelli laterali di gente che corre e personaggi ansimanti in balia di un destino poco incline a lasciare spazio alla speranza.
Tutti gli elementi con i quali l'autore romano è associato fin quasi alla presa in giro, sono al contempo anche i segni di un'idea di cinema fortissima e soprattutto di uno stile capace di sopravvivere ed emergere anche quando pesantemente imbrigliato da un sistema di codici rigido come quello hollywoodiano.
C'è una tale fluidità narrativa e, in generale, un senso del racconto in questo Padri e figlie che, nonostante ci si muova nei territori di un mainstream anche piuttosto dichiarato, risultano materiali davvero rari nel cinema di oggi.
Poi, è chiaro, lo script è quello che è.
Un vademecum, ai limiti del ricattatorio, di tutto ciò che può generare facile presa emotiva nel buio di una sala.
C'è la malattia mentale e un Russell Crowe che la interpreta dando una rinfrescata a tutto il repertorio di crisi di nervi sviluppato ai tempi di A Beautiful Mind, un rapporto padre-figlia pieno di promesse che si sa già resteranno tutt'altro che mantenute e una storia d'amore fondata su premesse apparentemente inconciliabili.
Come dicevamo però, la bravura di Gabriele Muccino è nel riuscire ad amalgamare questi ingredienti che, sulla carta, potrebbero andare a comporre un piatto indigeribile e uscirsene invece con un prodotto onesto, in nessun modo velleitario e del tutto coerente con il resto della sua filmografia, cosa che ad esempio non accadeva in Quello che so sull'amore, giustamente disconosciuto dall'autore già ai tempi dell'uscita in sala.
A questo punto quello che ci auguriamo per l'immediato futuro è che Muccino possa tornare presto anche a scriversi le sceneggiature da solo (cosa che gli è sempre riuscita bene) e abbandoni certi picchi di melassa a comando che, per quanto cifra distintiva di tutti i suoi film, sono quello che forse gli impedisce lo step definitivo verso lo status di autore con la A maiuscola.
La frase:
"Non riesco a capire perché Dio abbia inventato due cose: gli scarafaggi e i critici".
a cura di Fabio Giusti
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