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Dangkou (Plastic City)
Forse la parola più giusta per riassumere la pellicola del regista cinese Yu Lik-wai sembrerà mortificante ed eccessiva, ma "terrificante" appare forse quella maggiormente adatta.
Già perché Plastic City, presentato addirittura in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2008, nel quadro finale, si presenta purtroppo, come un’opera spenta, priva di contenuti e dannatamente noiosa.
L’idea di partenza, ovvero quella di parlare della malavita giapponese a Libertade, quartiere multietnico di San Paolo, in Brasile, dove esiste la più grande comunità nipponica, poteva essere davvero interessante.
Difatti la prima parte della pellicola lo è, e ne risulta un racconto molto lineare, logico, coinvolgente.
Una fotografia realistica, quella del quarantenne Lik-wai (già abile "assistente" per Jia Zhangke in Still Life, Leone d’Oro 2006 e per David Cronenberg per eXistenZ) che illustra un ambiente violento, cinico, fatto di droga, prostituzione, e che ha al centro due personaggi su tutti, Yuda e Kirin, padre contrabbandiere l’uno, figlio adottivo l’altro, diversi per individualità e caratteri.
In una storia, che sembra ricordare la saga del Padrino (qui però in salsa agrodolce), il film prende un’inspiegabile piega narrativa, quando va a sfociare in un "miscuglio" di stili e linguaggi, che invece che delineare meglio la storia, la confonde più che mai.
Scontri inverosimili, epiche battaglie, simili in tutto e per tutto a videogame o manga, con spargimenti di sangue stile Zatoischi di Kitano, si susseguono, alternati da assurdi e inspiegabili momenti onirici e di sospensione, che sono il segnale (poco lucido) di un’instabilità registica, per buona parte davvero imbarazzante.
Nella sua delirante visione, il regista cerca di farci intravedere barlumi di quotidianità urbana, dai jumpers (ragazzi specializzati nei salti a corpo libero per superare barriere cittadine), ai locali misteriosi, dove a suo dire, sembrano celarsi i segreti più scomodi, parlando anche di potere e del più semplice rapporto padre–figlio. Tutto questo però non basta.
Risultano buffi anche gli attori, per la maggior parte cinesi, che nella difficile recitazione anche in brasiliano, appaiono poco credibili e per nulla convincenti.
Forse l’unico vero merito che si può accreditare alla pellicola, sta nell’audacia nella ricerca di nuovi strumenti e soluzioni visive, certamente apprezzabili, ma non in un contesto come questo che meritava maggior attenzione e meno sperimentazioni di sorta.
Osare di meno, avrebbe sicuramente pagato di più.
La frase: "La merce è contraffatta ma i soldi sono veri".
Andrea Giordano
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