Argo
Thriller politico dotato di turbante tasso di suspense hitchockiana e abilmente calibrato tra il dramma realistico e lo show autoironico su e della Hollywoodland, Argo segna un passaggio cruciale nella carriera registica di Ben Affleck. L’ex "genio ribelle", che aveva rivelato il proprio talento dietro la macchina da presa nel primo Gone Baby Gone ed elevato le aspettative con l’ambizioso crime movie The Town, conferma una bravura sorprendente nella delicata messa in scena di tragedie, personali e di gruppo, che si consumano ai confini della realtà metropolitana, tra i tumulti di una cronaca scomoda e mai univoca e i sobborghi di un’umanità che rischia di affogare sempre nel male.
Anche stavolta ritroviamo un equilibrio inaspettato tra il peso della riflessione, affidata alla precisione dei primi piani e dei dolly, e la leggerezza pungente di un’ironia che rischia l’autocannibalismo (vedi la cadente scritta sulle colline di Los Angeles), consegnata all’estetica retro, dinamica e sgranata, merito del direttore della fotografia di 21 grammi - Il peso dell'anima, Rodrigo Prieto. La sceneggiatura dello sconosciuto Chris Terrio e la capacità di Affleck di commisurare all’abilità narrativa una potente struttura visiva accompagnano lo spettatore lungo una parabola incisiva, struggente e folgorante che riporta alla mente quel Sydney Pollack che sembra aver già ispirato l’amico George Clooney.
La storia, vera, è quella di Tony Mendez, per il quale il regista si è ritagliato il ruolo (azzeccato) da protagonista, agente della CIA che nel 1979 fronteggia la crisi di sei ostaggi americani a Teheran.
Il gruppo di diplomatici si è rifugiato nella residenza dell’ambasciatore canadese dopo essere scampato all’assalto alla Roosevelt Gate dell’ambasciata statunitense da parte dei militanti rivoluzionari iraniani, che manifestano contro il sostegno degli Stati Uniti allo scià Mohammad Reza Pahlavi. Mendez sfiderà come in una tragedia greca il destino, e la perplessità di chi gli ha affidato l’incarico, studiando e organizzando un piano che porti in salvo i propri connazionali: fingere che facciano parte di una troupe cinematografica in Iran per girare l’ennesimo sci-fi trash d’ambientazione esotica. Diviso tra la crescente ansia e gigantesca responsabilità della sua missione, suggerita dalla passione del figlio lontano per la fantascienza, e l’autoironia al vetriolo dei suoi cinici aiutanti, un truccatore e un produttore di Los Angeles, lo strategico duo John Goodman-Alan Arkin, il capitano di una nave difficile da guidare tenterà di salpare dal più pericoloso e pauroso dei mari.
Con l’obiettivo di rimanere fedele alla storia e di non realizzare un’opera facilmente soggetta a quel processo mediatico che politicizza per principio, il talentuoso e intelligente Affleck gira un film profondamente conservatore, quasi propagandistico se si pensa alla difesa indiscussa del democratico Jimmy Carter, accennata dalla meravigliosa sequenza iniziale a fumetto, e lo conclude adottando una soluzione patriottica: il suo messianico eroe, insabbiato nel tempo fino alla declassificazione di Clinton negli anni ‘90, torna a casa sospirando. Fuori sventola un’immancabile bandiera a stelle e strisce. Dentro avviene il sofferto recupero familiare, poeticamente sigillato da un abbraccio paterno. Ma è un’altra la sequenza, quasi istantanea, che reintegra il sottile equilibrio inseguito dal film, quella in cui Sahar, iraniana, dopo aver tradito il proprio popolo per l’ambasciatore canadese è costretta a rifugiarsi in Iraq, senza enne.
Affleck evita la ritrita demonizzazione mediorientale e tratta la sua storia problematica tenendo nella giusta considerazione le tensioni degli Stati Uniti e l’estremismo islamico, che esplode minaccioso perfino durante un sopralluogo a un bazar, ma si argina nella finzione di un film. All’interno della Verità del film.
La frase:
"Quindi tu vuoi venire a Hollywood e far finta che stai lavorando a un grande progetto senza realizzarlo, giusto? Allora hai scelto il posto giusto!".
a cura di Angela Cinicolo
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