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WonderLa recensione del film a cura della Redazione di FilmUP.com di Francesco Lomuscio16 dicembre 2017Voto: 7.5
Se non ti piace il posto dove sei, immagina dove vorresti essere.
È il suggerimento del piccolo August Pullman detto Auggie, il quale, nato con delle malformazioni del cranio che non gli hanno consentito di frequentare la scuola pubblica, si trova ad iniziare le medie in quella del suo quartiere, finendo in mezzo a compagni di studi che si sforzano di scovare dentro di loro la giusta compassione e accettazione.
Un piccolo del quale ascoltiamo anche la voce narrante e dalla situazione analoga, in un certo senso, a quella dell’adolescente Rocky Dennis alias Eric Stoltz affetto da leontiasi nel “Mask – Dietro la maschera” diretto nel 1985 da Peter Bogdanovich; a differenza di cui, però, la oltre ora e cinquanta di visione in questione non attinge da un fatto realmente accaduto, bensì da un romanzo di R.J. Palacio. E sono la vincitrice del premio Oscar Julia Roberts e un esilarante Owen Wilson destinato a regalare non pochi momenti per sorridere a fare da genitori al memorabile protagonista che, reso incredibilmente espressivo dal Jacob Tremblay di “Room” nascosto dietro un trucco eccezionalmente realistico, trova consolazione sotto un casco da astronauta e considera la festa di Halloween meravigliosa, in quanto unica in cui, indossando un costume che ne cela i connotati, viene avvicinato dalla gente, che lo tocca senza sapere chi sia. Memorabile protagonista che adora la saga cinematografica di “Star wars” e la cui notevole intelligenza, inoltre, viene posta in risalto dalla capacità di riconoscere la personalità e la provenienza sociale delle persone dalle scarpe che portano ai piedi; man mano che seguiamo anche le vicende della sorella maggiore Via – tra amicizie e probabile, imminente arrivo dell’amore – e della coetanea di lei Miranda, ovvero Izabella Vidovic e Danielle Rose Russell. Un personaggio, quest’ultimo, decisamente utile all’accentuazione della tutt’altro che banale riflessione nei confronti delle apparenze fornita da un insieme che, al di là di alcuni forzati aspetti tipici del buonismo a stelle e strisce in fotogrammi (sarebbe sufficiente citare il fatto che qualsiasi figura di colore del film risulti positiva ed esente da difetti), non si limita a fornire l’ennesimo agglomerato strappalacrime mirato ad investire lo spettatore con tragedie assortite e letti d’ospedale pronti ad essere sostituiti da bare. Perché, regista nel 2012 del sentimentale “Noi siamo infinito”, l’americano Stephen Chbosky riesce sì nell’impresa di spingere alla commozione in più di un’occasione, ma lo fa supportato da una splendida, coinvolgente sceneggiatura che – firmata da lui stesso al fianco di Steve Conrad e Jack Thorne – sfodera oltretutto ironia e brillanti dialoghi, nonostante il dramma di base. Dramma che non manca, ovviamente, di tirare in ballo neppure la sempre attuale tematica del bullismo giovanile e che, se da un lato suggerisce come ogni storia possieda due punti di vista, dall’altro arriva a toccare con grande delicatezza le corde del cuore ricordando che non si può cambiare l’aspetto delle cose, ma lo sguardo attraverso cui si osservano. La frase dal film:
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