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Winx - Il segreto del regno perduto
Il fenomeno a disegni (in tre anni di vita altrettante serie televisive, un musical e merchandising per un mercato da 130 nazioni) entra nella terza dimensione per il grande schermo grazie alla computer grafica: Winx – Il Segreto del regno perduto è un prodotto tutto italiano - con tanto di cervelli transfughi appositamente rientrati nella penisola – che si avvia a diventare il maggiore successo del paese nel campo dell’animazione. Le magiche fatine teen-ager sono infatti una creazione di Iginio Straffi - già fumettista e fondatore della Rainbow – il quale sceneggia, produce e dirige il film generosamente finanziato da RAI Fiction, che aveva fiutato l’affare fin dagli esordi TV.
Le scopiazzature si sprecano – a partire dai tratti dei personaggi, da cartoon giapponese (occhi grandi e somiglianze da stampino) - e vengono assemblati elementi diversi e/o contrastanti quali poteri degli elementi naturali e tecnologia, nomi anglosassoni e da mitologia greco-latina, ambientazioni tra il fantasy medievale e un futuro spaziale. Poste tra le trasgressive Bratz e le rassicuranti Barbie, in quanto modello pre-adolescenziale l’aspetto più pericoloso delle Winx sta nell’esteriorità, con corpi longilinei tutti curve, “vitino a vespa”, trucco, abiti succinti e tacchi. Una responsabilità “educativa” che si crede bilanciata da rapporti paritari tra i sessi e da una femminilità protagonista nel bene (le nostre) e nel male (le streghe antenate), oltreché da inni ad autostima e spirito di gruppo. A cui si aggiungono accenni di taoismo (“la parte nera fa parte di noi, come una scacchiera in cui le parti nere delimitano quelle bianche e viceversa”) e adagi da luogo comune (“la vita continua”, “indietro non si torna”), con tutti che si promettono l’eternità di amicizia, amore, famiglia. Ma - nonostante il grosso sforzo (400 tra artisti e tecnici coinvolti) - per forma e contenuti siamo lontani dal faro Pixar, mentre il finale anticipa il secondo episodio già in preparazione.
La frase: "c’è nessuno? Niente, peggio di un centro commerciale di lunedì".
Federico Raponi
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