29 gennaio 2001 - Conferenza stampa
L'ultimo bacio
Intervista al regista Gabriele Muccino
di Valeria Chiari


Il nuovo film di Gabriele Muccino "L'ultimo bacio" parla della paura di crescere, di quella sindrome di Peter Pan che sembra oggi tanto diffusa. Un film corale in cui ognuno dei personaggi, racconta se stesso, le proprie ansie e angosce rispetto alle responsabilità che si parano davanti o alle aspirazioni deluse. Un comune desiderio di fuga verso qualcosa che sia diverso ma soprattutto ignoto e lontano; una ricerca affannosa di ciò che poi alla fine è dentro e accanto a noi.
Abbiamo incontrato il giovane regista in occasione dell'uscita del film prevista per il 2 febbraio.

Una storia fatta di storie, viste da un punto di vista emotivo. È stato difficile oppure lo hai scritto di getto?
Scrivere il soggetto del film è stato in questo caso molto complicato e difficile, ci sono state delle volte che ho persino voluto mollare tutto. Riuscire a creare più storie che si sviluppassero in maniera coerente, e che poi si incrociassero tra loro per formare un unico, è stato un lavoro lungo, tanto che ho impiegato più tempo del solito a scriverla: circa sei mesi. Mentre invece scrivere i dialoghi è stato più immediato quasi istintivo: giocare con le parole dette mi risulta molto più facile.
Si parla di fatica di vivere, della ricerca di riappacificazione con se stessi e soprattutto della difficoltà di amare e di crescere, sempre. Secondo me in ogni momento della nostra vita, in ogni età si può cercare qual è la propria felicità e riconoscere la propria avvenuta crescita. Non c'è veramente mai un momento in cui ci si possa sedere su un divano e dire "Ora basta, sono cresciuto abbastanza", perché la ricerca di noi stessi è infinita, ed è proprio questa ricerca ad essere la fonte della infelicità che sentiamo e che immancabilmente buttiamo addosso a chi ci sta vicino.

È in nome di questa crescita che parli non solo di coppie di trentenni ma anche di cinquantenni?
Si, proprio perché la crescita e la ricerca della propria felicità appartengono a tutte le età. In realtà quando ho iniziato a lavorare sul soggetto volevo parlare solo di una cinquantenne, avevo voglia di raccontare l'inquietudine, la voglia di vivere che ha adesso ad esempio, la generazione di mia madre, il desiderio che si risente a cinquant'anni di tornare a essere quello che non si è stati: mi affascinava quell'agitazione intima che credo appartenga anche ai trentenni. Alla fine ho pensato che sarebbe stato interessante parlare di quello strano processo che nel corso della vita ti fa vedere le cose in modi sempre diversi, dipendentemente dall'età e dalle esperienze: partendo dalla visione del mondo dei diciottenni, incantati e accecati dall'idea dell'amore eterno e del matrimonio, convinti che tutto sia "per sempre"; per arrivare a quella dei trentenni che si sono già innamorati e disinnamorati più volte, oramai disincantati perché sanno meglio come va la vita e poi quella dei cinquantenni che si chiedono se possono ancora sentirsi come una volta, con il desiderio di tornare giovani e pieni di possibilità come i proprio figli.


  

Intervista al regista

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