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02 Settembre 2010 - Conferenza
"Noi credevamo"
Intervista al regista e al cast.
di Federica Di Bartolo
Alla conferenza stampa di presentazione del film in costume "Noi credevamo" in concorso alla 67a Mostra del cinema di Venezia erano presenti il regista napoletano Mario Martone, il cosceneggiatore Giancarlo De Cataldo, gli interpreti: Luigi Lo Cascio, Valerio Rinasco, Francesca Inaudi, Luigi Pisani, Luca Zingaretti e Luca Barbareschi, Guido Caprino e Fiona Shaw.
Nel film c'è la figura di un sarto napoletano vagamente borbonico che quando viene invitato da Domenico e Saverio a partecipare ai moti risponde: "Tengo o cardillo". Questa frase potrebbe essere intesa come una giustificazione simile a "Tengo famiglia"? Ci può spiegare cosa intendeva con questa frase?
Mario Martone: In realtà l'immagine del cardillo è un riferimento a "Il cardillo innamorato" di Annamaria Ortese, scrittrice pre-illuminista. L''ho utilizzato per descrivere un uomo che non crede che il mondo possa essere rifatto, ma preferisce rimanere in una situazione di condivisione rassegnata della natura. Quell'immagine rievoca più una via in un certo senso indiana di accoglimento dei dolori del mondo e della storia. E' il simbolo dell'unico antirivoluzionario della storia, una figura che pone una diversa questione dialettica nel film, che non cerca di essere ideologico.
"Noi credevamo" ricorda il film "Nell'anno del Signore" di Luigi Magni. E' un film con cui vi siete confrontati? Quali sono stati i vostri film di riferimento?
Mario Martone: Non in particolare: abbiamo tenuto presente tutti i film realizzati sul Risorgimento come "Il gattopardo", "Senso" e i film dei fratelli Taviani, però noi siamo andati per la nostra strada. La mia grande fonte sia per l'approccio alla storia sia per l'utilizzo della Storia è stato Rossellini.
Il vostro è un film senza retorica che però ha anche un rapporto col presente. Che tipo di relazione volevate mettere in scena?
Mario Martone: Il film è tutto ricostruito su materiali provenienti direttamente dalla storia, dagli scritti e dalle lettere di Mazzini, Belgiojoso, Poerio, Gallenga. L'idea era quella di realizzare un film storico che mettesse lo spettatore in condizione di creare un rapporto col presente, ma senza nessuna strizzata d'occhio all'attualità. In realtà abbiamo mantenuto volutamente il linguaggio dell'Ottocento con cui attori si sono dovuti confrontare per cercare di renderlo vivo. Si tratta di un Ottocento non tanto ricostruito ma scavato nel nostro presente, tutti gli ambienti sono reali. Si può vedere come il presente affiora nel carcere di Saluzzo, che aveva ospitato i brigatisti negli anni '70 e dall'immagine di quel pezzo di cemento armato che devasta la costa del Sud. Ho anche avuto la fortuna di lavorare con Renato Berta, col quale ho condiviso la visione chiara di ogni aspetto del film senza mai alludere a uno stile moderno solo per modernizzare la storia raccontata.
Giancarlo De Cataldo: Il nostro Risorgimento è stato una sfida, un'avventura perché tutti noi, come tanti cittadini dell'Italia, viviamo in un Paese senza memoria dove due opposte retoriche si contrappongono per quanto riguarda il Risorgimento. C'è una versione secondo cui i protagonisti del Risorgimento sono tutti eroi giovani e belli, pronti a versare il sangue in nome di un causa, l'Unità e c'è un'altra visione che vede il Risorgimento come una truffa perpetrata ai danni degli italiani che in realtà non volevano l'Unità e veneravano il Re Borbone, il Papa e gli Austriaci. Credo che né l'una né l'altra versione siano vera o falsa, ma che il nucleo sia nella speranza e nel sogno dei giovani, nell'utopia di una costruzione, ingenua nei protagonisti e incattivita in alcuni personaggi come Angelo e della forza che rivendica con un grido disperato. Mentre io e Mario lavoravamo come dei cospiratori io dicevo martirio e Mario rispondeva resurrezione, come nel film. Abbiamo lavorato su un'abbondantissima risorsa letteraria, abbiamo studiato materiale di stampo leghista o borbonico confrontandoci con una mente libera da ogni concetto precostruito a una storia con personaggi che all'inizio erano sulla carta poi sono diventati l'universo con cui abbiamo convissuto per un lungo periodo. Ci siamo trasportati in quel tempo cogliendone più di un punto di contatto con il mondo di oggi.
Alla fine del film un personaggio, Domenico, si riferisce alla società come "gretta, superba e assassina". E' una definizione che può avere analogie col presente?
Mario Martone: Quelle sono le parole del finale del libro omonimo di Anna Banti, da cui è stato tratto il film. Il punto è che quell'Italia si è riproposta in quel modo tante volte dopo quel momento. Sono parole valide ancora oggi. Il conflitto di allora si ripete nella tensione di un dualismo che più volte ha caratterizzato la storia del nostro Paese. Non si tratta di una lotta tra destra e sinistra quanto piuttosto tra due anime antropologiche del Paese, tra democrazia e autoritarismo. C'è ancora oggi la tendenza di affidarsi a un potere che si suppone forte e che ha prodotto tantissime tragedie
La pagina del brigantaggio è tenuta in secondo piano nel film. Come motivate questa scelta?
Mario Martone: Raccontare il Risorgimento nella sua interezza sarebbe stato impossibile e abbiamo dovuto per forza fare delle scelte. Il processo unitario è stato molto complesso, per cui abbiamo cercato di individuare quattro momenti che corrispondono ai quattro episodi, affinché potessero essere indicativi, potessero far luce su delle zone buie della storia. Gli spettatori sono invitati a porre questi episodi accanto a quelli che già conoscono, come la spedizione dei Mille, che viene solo accennata nel film. Abbiamo scelto dei punti precisi per non essere approssimativi o frettolosi, ma per sviscerarli. Io mi aspetto comunque, anzi sarebbe bello, che prima o poi arrivi la risposta sabaudo-cavouriana a questo film!
Come si sono confrontati gli attori con i loro personaggi?
Luigi Lo Cascio: Il personaggio di Domenico è un cospiratore che vive con sofferenza la separazione fra aristocrazia, borghesia e il popolo, è quasi un personaggio teatrale. All'inizio ha un'attività simile a quella degli altri, con i quali vive una dimensione corale. Nel corso del film, dopo il carcere e quando il popolo matura lo scollamento dalla realtà, fissa le sue idee. Solo successivamente riabbraccia il fucile e rinasce il suo furore. Un aspetto importante del mio personaggio è la disillusione, la consapevolezza che il grande sogno dell'unificazione è stato realizzato con patimenti e torture, oltre che il rammarico per il fatto che si poteva fare meglio. E' mancata la cosa fondamentale: l'ideale, l'ansia di giustizia e di rinascimento sociale. Come gli altri, è un personaggio colossale da cui all'inizio ho preso distanza, ma che ha del mito qualcosa di fondante, al punto che l'ho tratto come un personaggio appartenente al teatro, non lontano da noi. Domenico parla una lingua che rischia di sembrare differente se non ci si mette in sintonia in maniera più intima. Più che prepararmi, mi sono fidato molto della musica per affinare il mio ruolo e anche il film è costruito come un libretto all'altezza di Verdi e Bellini. Il cinema in fondo nasce anche dal melodramma. La mia preparazione passa quindi attraverso questo furore e questo patriottismo!
Valerio Binasco: Quando ho letto il copione mi sono ritrovato con un personaggio sprofondato lentamente nell'inferno per una causa giusta, che è l'Unità della patria. E' una persona divisa tra due componenti: l'esaltazione per la giusta causa e il senso di colpa per l'uccisione di un amico, che lo ha trasformato in un novello "Caino". Ho voluto molto bene a questo personaggio un po' bastardo! Sono entrato con questo personaggio nella parte più solitaria di me, involontariamente, e mi ha emozionato il pensiero di fare il terrorista, pensiero che mi aveva quasi ossessionato in questi anni. E' stato anche un viaggio nella rabbia e nell'ingiustizia dalla parte giusta ma nei panni di un uomo sbagliato.
Luca Zingaretti: Il mio percorso è stato semplice, perché quando c'è un personaggio storico da interpretare è importante scegliersi, d'accordo col regista, un colore dominante. Ho cercato di rendere ambiguo il mio Crispi, di renderlo liquido!
Luca Barbareschi: Avevo sottovalutato l'operazione di Mario quando mi ha chiesto di parteciparvi. Per me è stata un'emozione doppia perché da politico è stato buffo ritrovarmi in un film molto coraggioso, onesto intellettualmente e importante per quello che sta succedendo oggi. Spero che milioni di persone lo vedranno perché questo è un Paese senza memoria, però senza memoria non si va da nessuna parte. Per me che faccio politica, Mario Martone ha fatto un film molto coraggioso e importante per quello che sta accadendo in questo Paese oggi. Martone mi ha dato la possibilità di rivivere la storia e vedere come si ripete come ad esempio a Mirabello domenica scorsa dove mi è sembrato di essere in un film in cui accade qualcosa che segna la storia. Gallenga è stato un deputato, un giornalista, un traditore e io ho cercato di metterci anche la mia esperienza politica. Vedendo Mazzini mi è venuto in mente Toni Negri, qualcuno che ha vissuto la rivoluzione sulla pelle degli altri dato che se ne stava a Londra.
Da dove nasce l'idea d'inserire tra i personaggi Cristina Belgiojoso, che è così poco conosciuta?
Mario Martone: Quando abbiamo iniziato a lavorare sul film ci sono venute incontro inevitabilmente tantissime figure maschili. "Noi credevamo" è un film maschile! Mi sembrava importante individuare un personaggio femminile, ma avevo bene in mente che fosse una donna con una propria idea politica, in rapporto dialettico con i personaggi maschili del film. Mi sono imbattuto in questo personaggio e l'ho proposto a Giancarlo ritenendolo un personaggio meraviglioso che meriterebbe un film a parte. Francesca Inaudi ha saputo restituire la sua lingua senza imbalsamarla. A Cristina Belgiojoso sono dedicate non poche strade e credo che la sua fosse una posizione molto avanzata sia nei confronti di Mazzini sia di Cavour, cosa molto significativa. E' una figura storica che meriterebbe un film a sé.
Lei conosceva il sindaco di Pollica, Angelo Vassallo, come ha reagito alla notizia che è morto in un attentato?
Mario Martone: L'assassinio di Angelo Vassallo è stato un brutto colpo sia per ragioni personali dato che lo conscevo da tanti anni e poi ha dato una mano al film. Abbiamo girato molte scene nel comune di Pollica. Sono molto legato al Cilento, una terra che con questo film viene alla ribalta, una terra che non era ancora stata toccata dalla violenza che sconvolge il Sud. Il fatto che questo evento sia accaduto proprio lì, fa molta paura. Serve una azione ferma perché questo stato di cose non degeneri di più.
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