07 Settembre 2008 - Intervista
"La fabbrica dei tedeschi"
Intervista al regista
di Federico Raponi

Mimmo Calopresti ci parla del suo documentario "La Fabbrica dei tedeschi", presentato alla 65° Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica, sezione Orizzonti/Eventi.

Perché chiamarlo "La fabbrica dei tedeschi"?
Mimmo Calopresti: l'ho titolato in questo modo abbastanza provocatoriamente, perché si tratta di una multinazionale con altissimi fatturati e investimenti tecnologici dove avviene un incidente così grave. Questo mi fa pensare che gli investimenti sulla sicurezza sono bassi, al limite, insufficienti.

Come è nata l'idea?
Mimmo Calopresti: un gruppo di ragazzi, anche coraggiosi per certi aspetti, una notte sono andati a spegnere un piccolo incendio - che poi si è trasformato in una tragedia - per salvare la struttura produttiva di una fabbrica che li aveva già licenziati, da lì a un mese li avrebbe mandati tutti a casa. Mi è sembrata una situazione paradossale, incredibile, assurda. E allora, un po' anche perché a Torino ci ho vissuto, e per molto tempo in quell'ambiente (mio padre era operaio della FIAT) che ho sempre cercato di raccontare, mi è sembrato quasi necessario che io andassi e provassi a ricostruire la storia di quella tragedia, che poi improvvisamente è diventata il racconto di una fabbrica e di una condizione di vita. Quindi sono partito e ho cominciato a girare. Ecco, semplicemente questo.

Un padre operaio, un documentario già realizzato su una fabbrica ("Alla FIAT era così", ndr) e ora quest'ultimo. Come è cambiata nel tempo la classe operaia?
Mimmo Calopresti: intanto c'è da dire subito un dato semplice: continuano ad esserci persone che fanno un lavoro duro, difficile, con delle turnazioni complicate, con ritmi e carichi di orario molto alti. In quella fabbrica - per esempio - si lavorava non 8 ma 16 ore, e qualche volta anche di più. E per che cosa? Per uno stipendio base che mi sembra basso. Si parla di 1000 euro per un salario base, 1500 se vai a fare una quantità di ore di lavoro insopportabili. Quindi la situazione mi sembra peggiorata da certi punti di vista, nel senso che c'è probabilmente una organizzazione del lavoro che non funziona. Perché, in cambio di evitare la crisi produttiva e che quel posto chiuda, si lavora molto per pochi soldi e ci si prende carico di una situazione che forse non dovrebbe essere quella degli operai. Mi sembra che molti anni fa - in base alla mia esperienza di vita - c'era da parte degli operai la fierezza, la voglia di sentirsi motore di creazione di benessere per tutti e di cambiamenti, che però dall'altra voleva dire anche capacità di avere una grande dignità rispetto al mantenersi il posto di lavoro e al difendersi rispetto ai ritmi e alla salute. Mi è sembrato che oggi questa cosa sia un po' saltata, c'è una risposta abbastanza individuale da parte di tutti, sempre nel tentativo - ovviamente solito - di vivere meglio, avere qualche soldo in più, sostanzialmente andare avanti. E alla fine ho scoperto che sono cambiati i sogni degli operai. Alla FIAT, in fondo il sogno di mio padre era una vita migliore per la sua famiglia, i suoi figli, insomma una condizione di benessere. Oggi, chi finisce in fabbrica ha sogni alla fine irrealizzabili, illusioni di sfuggire a quel mondo, di pensare che prima o poi ce la farai a non fare più quella vita, magari invidiando vite diverse, che vedi rappresentate in televisione o da altre parti. Forse è solo un sogno, ma i sogni - dico io - vanno rispettati.

Quindi?
Mimmo Calopresti: forse è da lì che bisogna partire per capire un po' di più ciò che sta succedendo in quel mondo. Il quale però continua ad avere una caratteristica uguale da sempre, secondo me: c'è qualcuno che va ad infilarsi nella situazione di entrare in fabbrica e dare poco tempo alla propria vita. Quando si parla di morti sul lavoro si parla di diritto alla vita, assolutamente sacrosanto. La gente va a lavorare e ha il diritto di uscire dalle fabbriche senza rimetterci la vita. Però c'è anche un altro pezzo di vita che gli operai devono difendere, che poi è quella di tutti i giorni, lo spazio del loro tempo libero per realizzare altro al di fuori della fabbrica, anche semplicemente da dedicare agli affetti. Quelle persone alla Thyssenkrupp facevano una turnazione per cui ogni due mesi avevano un week-end libero. Questo li obbliga a fare una vita che non è esattamente felice. Anche se poi loro erano contenti, perché andavano a lavorare per le loro famiglie. Però, quando intervisti una moglie, un fratello, una madre ti accorgi che quelle vite hanno poco spazio per gli affetti. E quindi penso che quest'idea del diritto a non morire sul lavoro si debba anche estendere al diritto ad una vita migliore in generale. Una cosa che oggi forse è la più difficile da ottenere.

Alla fine del doc "in fabbrica" di Francesca Comencini si vede un operaio di colore che è studente all'università e solo temporaneamente lavora lì. Un caso emblematico di una condizione che non vuole più essere tale, e di un gruppo di personaggi non più italiani. Una duplice valenza di cambiamento, quindi. Forse è uno dei motivi per cui da una parte le persone vogliono altro, e dall'altra chi dà lavoro è consapevole che non c'è più affezione, e quindi diminuisce anche la propria attenzione verso gli operai...
Mimmo Calopresti: succede anche questo, alla Thyssenkrupp è successo. Ti trovi davanti ad una multinazionale con cui hai pochi rapporti, è lontana dalla tua vita. Poi i dirigenti hanno la possibilità - perché in Italia succede questo - di avere delle leggi, la possibilità, una condizione generale che gli permette di fare delle scelte legate solo al proprio sviluppo produttivo, fregandosene di quello che poi succederà a chi lavora e le subirà. E quindi possono trasferire la fabbrica da Torino a Terni perché lì le condizioni economiche sono migliori. Dopodichè agli operai non resta nient'altro che pensare ad un'alternativa qualsiasi rispetto al farsi trasferire e dover cambiare le loro vite. Questo lo trovo drammatico, cambia proprio le vite delle persone, il rapporto che hanno col mondo e col lavoro. Penso che oggi - facendo questo doc mi sono reimmerso in un mondo che per un po' non avevo più visto - gli operai forse devono cominciare a ripensare il loro rapporto col lavoro, il poter scegliere quello che vogliono fare. Mi sembra che in Italia, e forse in giro per il mondo, le persone questa possibilità non ce l'hanno e quindi si ritrovano in un mondo difficile, ed è complicato poi uscirne. Mio padre, tutto sommato, una volta risolto il problema di pagare l'affitto, gli studi dei figli, il cibo tutti i giorni aveva fatto un grande passo avanti. Forse oggi le persone che vanno in fabbrica vogliono di più, hanno altri bisogni, esigenze. Forse è giusto pensare a questo. Tutto un po' irreale, ma mi sembra che viviamo in un mondo irreale, quindi bisogna occuparsi anche di questa irrealtà.

Che vita avrà il tuo documentario? Sala, televisione, home video?
Mimmo Calopresti: era nata come un'idea produttiva molto semplice, c'è una collana RCS della BUR per la quale doveva uscire come libro e DVD. Poi piano piano, girandolo, è diventato un po' più importante rispetto alla partenza. Uscirà in sala, in televisione e poi in DVD. I documentari più facilmente seguono questa strada, è un buon mercato devo dire sinceramente. Certi lavori che faccio mi rendono un po' ottimista rispetto alla situazione generale, e mi accorgo che oggi esiste una piccola parte di spazi per poter far vedere le proprie opere, commercializzarle per esempio attraverso le librerie.

A cosa stai lavorando?
Mimmo Calopresti: ho scritto una sceneggiatura ambientata a Napoli su dei ragazzini di quartiere, perché in questi anni sono stato molto tempo lì facendo un tentativo di scuola di documentario complicata e difficile. Però si tratta di una città veramente affascinante, c'è qualcosa che ti attrae e non capisco neanche come. Aldilà dei problemi che ci sono, enormi come l'immondizia, all'improvviso ti accorgi che sembra di vivere in un altro mondo, in un'altra Italia. Se le cose vanno bene - la produzione è sempre complicata - vorrei farne un film da qui a poco.

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