My Joy
Il fato non è amico di Georgy. Fin dai primi anni di vita. Noi lo troviamo mentre, giovane camionista, è in viaggio per la Russia verso un luogo non definito. Ma perde la strada. Viene fermato da un poliziotto corrotto per un controllo, dà un passaggio a un veterano della Seconda guerra mondiale che gli racconta il suo rientro dal fronte, si trova poi intrappolato in un ingorgo ed è aiutato da una giovanissima prostituta che si offre di condurlo verso un villaggio. Rimasto solo, Georgy, di notte, si ritrova in un nulla di boschi e stradine. Incontra una misteriosa zingara e due individui non proprio affidabili che lo invitano a un pasto attorno a un fuoco. C’è da dirlo? Non andrà proprio bene per Georgy ed è qui che lo spettatore è preso per mano dal regista che gli fa compiere un viaggio a ritroso. Vediamo due soldati che, di ritorno dalla guerra, uccidono con efferatezza un insegnante vedovo con un figlio. Poi ancora un salto e ritroveremo il protagonista, irriconoscibile e muto.
Un passato da documentarista, il bielorusso (cresciuto in Ucraina) Sergei Loznitsa, che abita e lavora per lo più in Germania, qui è al suo esordio in un lungometraggio di fiction ed è folgorante. Con una gelida precisione documentaristica, con un girato asciutto ed essenziale, che nulla aggiunge in sovrastrutture, Loznitsa traccia, attraverso la vicenda di un uomo sperduto, la parabola di una Russia lasciata a se stessa, alla deriva. Così come il viaggio di Georgy è verso il nulla, in un difficile recupero delle tracce della civiltà che lo conducano fuori dalla campagna, in cui pare vigere la legge della sopravvivenza del più forte, così è la situazione del suo Paese, che in fretta si estende a una visione generale del mondo, in cui le tracce della civiltà paiono irrimediabilmente perse, in uno smarrimento di senso e direzione. La follia è in agguato, il lato oscuro in noi pronto a guizzare fuori, la violenza è l’unico ponte temporale.
Una visione pessimista e nichilista, che annienta ogni afflato, ogni tentativo di ribellione. Georgy è colui “che gli dei non amano”, che fin da piccolo pare nato con un marchio sbagliato di fabbrica, innocente condotto al macello della vita, nato sul lato errato del fiume. Un rapporto causa effetto da cui non è possibile sfuggire, non serve ribellarsi, lottare o, anche, non fare nulla: il destino avverso è in agguato, il passato ritorna e ti bracca. La sensazione è che, nella vita, entrambe le rive siano sbagliate, perché, come Loznitsa fa intendere, non vi è un senso, solo un intrico di strade che non portano a nulla, non indicano alcuna direzione, un labirinto in cui tutto si ripete e ripropone, senza orizzonti. Faticoso da seguire, in questa follia spazio temporale, è un mosaico da ricomporre, spiazzante, a tratti delirante: il viaggio però vale (forse) la pena.

La frase: "Quella non è una strada, è una direzione. Non porta in alcun luogo. È una strada morta".

Donata Ferrario

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