Paura e desiderio
La sceneggiatura porta la firma dell’Howard Sackler in seguito curatore, tra l’altro, dello script de "Lo squalo 2" (1978), mentre Paul Mazursky – regista de "Il dittatore del Parador in arte Jack" (1988) e "Storie di amori e infedeltà" (1991) – figura tra gli attori.
L’elemento più interessante di questo mediometraggio (siamo intorno all’ora di durata) in bianco e nero datato 1953 e incentrato sui quattro superstiti di un aereo militare abbattuto nel corso di un immaginario conflitto bellico e intrappolati circa sei miglia dietro le linee nemiche, però, è individuabile nel nome di colui che si trova dietro la macchina da presa: Stanley Kubrick.
Perché fu proprio grazie a questo particolare war movie – concepito dopo i corto-documentari "Flying padre" (1951) e "Day of the fight" (1951) e in anticipo di tre anni rispetto a "Il bacio dell’assassino" (1955) – che l’autore di "2001: Odissea nello spazio" (1968) e "Arancia meccanica" (1971) ebbe modo di affrontare per la prima volta la narrazione da schermo attraverso un metraggio di pellicola che sfiorasse quello del lungo.
Narrazione destinata ad evolversi con l’arrivo di una ragazza di campagna incarnata dalla Virginia Leith de "Il cervello che non voleva morire" (1962) e che il quartetto di soldati decide di fare prigioniera, man mano che progettano anche di eliminare il comandante di una base nemica.
Ma, tra evidenti allegorie e voice off volta a ribadire, tra l’altro, che nessun uomo era un’isola soltanto prima dell’era glaciale, non bisogna aspettarsi effetti pirotecnici e momenti altamente spettacolari, in quanto ci troviamo dinanzi a un’operazione realizzata in economia da un Kubrick poco più che dilettante.
Un Kubrick che, come qualsiasi cineasta consapevole di pochezza di budget e mezzi, fa di un ristretto pezzo di terreno l’indispensabile palcoscenico su cui far muovere il proprio cast, privilegiando una certa teatralità accentuata anche dalla scarsa cura sfoggiata nei confronti di costumi, scenografie e trucco.
Pur lasciando già avvertire sia sprazzi della sua poetica che il personale gusto per la fotografia e l’inquadratura, al servizio di un elaborato che, di conseguenza, va interpretato soltanto quale primo vedibile ma non riuscitissimo esperimento del riconosciuto maestro della Settima arte all’interno del genere cui ha poi regalato "Orizzonti di gloria" (1957) e "Full metal jacket" (1987).
La frase:
"Nessun uomo è un’isola".
a cura di Francesco Lomuscio
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