Paradise Now
Un certo tipo di cinema "politicamente impegnato", militante potremmo dire, soffre di solito di due ordini di difficoltà. Il primo concerne la fruibilità popolare, una capacità filmica di messa a disposizione delle chiavi di lettura e di comprensione dell'aspetto puramente cinematografico di un film che presenta un'impostazione sociale. Ultimamente il "Romanzo Criminale" di Placido/Di Cataldo si pone come sintesi classica ed insieme moderna di una problematica simile.
Il secondo riguarda modo più stretto la materia del cinema, non tanto nella sua semplice realizzazione tecnica, quanto nella sapiente miscela di un'etica della messa in scena e di uno script ben bilanciato e godibile.
Vicino alla composizione di quest'ultimo rebus va l'ultimo film di Hany Abu-Assad, che tenta di unire le esigenze di autorialità e d'impegno di un'opera d'impegno sociale, ad una coerenza etica ed estetica che per rendere il film cinematograficamente di ottima fattura.
Singolare e interessantissima la vicenda narrata, quella della quotidianità di due aspiranti kamikaze palestinesi nella Nablus odierna. La struttura della narrazione procede in modo coerente con l'occhio che osserva. E così il vissuto spicciolo di due ragazzi qualsiasi della striscia di Gaza (gli ottimi Kais Nashef e Ali Suleiman) viene messo in scena fino nella banalità di sequenze iniziali che dipingono quadri quasi minimalisti, eppure capaci di introdurre lo spettatore al di dentro di una vicenda in poche semplici pennellate.
Paradossalmente tutta la carica di denuncia che il film porta con se (per la quale ha ottenuto anche il patrocinio di Amnesty International) viene dipanata in una vicenda che di politica, nel senso stretto del termine, ha molto poco. "Volevo mettere in scena un thriller, ma che avesse tutte le caratteristiche di una storia, un tempo e una situazione reali" ha detto il regista. E Mike Corradi, responsabile per il medio-oriente di Amnesty, inquadra bene la dimensione del film dicendo "Noi siamo a conoscenza di un problema politico e sociale rispetto alla situazione israelo-palestinese. Ma solo il cinema, andando a scoperchiare e a scoprire un vissuto, ci può offrire un quadro reale della drammaticità di un certo tipo di condizione umana".
La bravura di Abu-Assad sta proprio nell'usare un linguaggio cinematografico denso di un'etica filmica, che veicoli un certo messaggio avendo la cura di non perdere di vista l'interesse principale in un'opera del genere, cioè quello di un amore profondo verso il cinema, posto un passo prima rispetto a tutti quelli che possono essere aspetti importanti ma non fondamentali in un film.
E così Assad ci offre qualche quadro di cinema d'alta scuola, come alcune inquadrature cariche di senso e di simmetria, o come la splendida sequenza del testamento.
Il film, molto breve, perde d'intensità negli ultimi dieci minuti, tendendo a diventare eccessivamente raccontato, retorico. Ma il finale recupera quella intensità e quella scomodità che ne ha caratterizzato tutto l'andamento. Un ottimo prodotto dunque, che verrà penalizzato dalla solita distribuzione barbara, ma a cui vale veramente la pena dare un'occhiata.

La frase: "Ci sei mai andato al cinema?" "Una volta, dieci anni fa, quando abbiamo bruciato il cinema Rivoli"

Pietro Salvatori

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