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Titolo film:    Oliver Twist
Opinioni presenti:    65
Media Voto:    7.5 - Media Voto: 7.5


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Il parere di Davide, 17 anni, Reggio Calabria
Oliver e la ricerca di un posto nel mondo
Voto 10 di 10 Voto 10di 10
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Quanta pazienza pare avere il piccolo Oliver Twist, mai sfiorato da dubbio o da paura autentica e fino alla fine autarchicamente rinserrato nel suo candore, segno d’elezione: la sua parabola è una variazione sul tema di Cenerentola. Orfano tra gli orfani, maltrattato dai suoi pari e ancor di più dai ricchi in cerca di rivalsa e di chiarezza di censo, eccolo che prende il fagottino e giunge a Londra. La città, allora più tentacolare di oggi, lo riceve tramite alcuni ottimi rappresentanti della criminalità organizzata, anzi organizzatissima: un’associazione con scopo di lucro e organigramma piramidale, presso cui il giovane Oliver potrà ottenere l’attenzione che merita e un valido tirocinio formativo, quel che si dice contatti e opportunità. Peccato che a questo punto i buoni propositi non bastino più, nelle società più civili vige la meritocrazia e Oliver è evidentemente poco dotato per il borseggio. Nonostante la stilizzazione del protagonista e una divisione “dantesca” più che manichea tra i personaggi (buoni, non-buoni, non-buoni con possibilità di riscatto), Polanski e Harwood riescono a rendere la vicenda interessante e paradossalmente attuale, così come lo sono la tematica dello sfruttamento dell’infanzia e quella più universale della ricerca di un proprio posto nel mondo. Segno che il racconto di Charles Dickens è ancora vivo e pulsante nonostante i rimproveri di conformismo vittoriano e ha certamente un senso richiamarlo in scena, anche dopo l’elegante, insuperato antecedente di David Lean (1948) e le numerose trasposizioni a seguire (tra cui un musical e un cartone di Walt Disney). Merito della capacità ironica dell’autore, merito dell’efficace semplicità dell’intreccio, sia come sia Polanski non ha avuto bisogno di aggiungere praticamente nulla. L’operazione è stata semmai di sottrazione (ad esempio i primi 9 anni di Oliver e l’agnizione finale, il bambino è in realtà nipote di Bronlow) mentre lo sforzo creativo più evidente è stato rivolto a illuminazione e fotografia. Leggermente fuori tono il finale riservato a Fagin (un ottimo Ben Kingsley), perdonato all’ultimo secondo da un Oliver piccolo Lord: evidenzia la recitazione un po’ fredda del protagonista e la trasposizione, dicevamo, volutamente piatta dello sceneggiatore. Che anche Roman Polanski risulti invisibile dietro la macchina da presa è un dato di fatto, né il regista pretende di aver fatto molto per esibire il tocco autoriale di un tempo: stabilito il brand, si è assestato su una logica di galleggiamento. Ma non fa mancare niente al film. Accanto alla visione, resta saldo il mestiere che gli consente di svolgere in pratica un lavoro su commissione con un ottimo risultato. Questa volta, il regista 70enne trasferisce lo sguardo e l’immedesimazione dal piano tecnico-registico a quello biografico: lui, fuggito dal ghetto di Varsavia, orfano, ci suggerisce di essere sempre stato, come Oliver, tetragono alla cattiva sorte.

Questa opinione è stata scritta da:
Davide
17 anni
Reggio Calabria.
(10 Marzo 2009)






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