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Marguerite

La recensione del film a cura della Redazione di FilmUP.com

di Riccardo Favaro04 settembre 2015
 

  • Foto dal film Marguerite
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C'è un tempo per il dolore e un tempo per il riso e sta là, dove sublime e ridicolo si somigliano.
La baronessa Marguerite Dumont è una ricca mecenate d'arte in una Francia che prova a rialzarsi dopo il primo conflitto mondiale.
Presso la sua tenuta, nelle vicinanze di Parigi, si tengono riunioni più o meno fisse di un aristocratico circolo di canto e musica finanziato dalla stessa nobildonna che, oltre a investire del denaro, spende giornate intere a preparare esibizioni per invitati e servitù.

Sarebbe tutto perfetto se non ci si trovasse di fronte ad un autentico cataclisma vocale che nessuno delle persone che le gravitano attorno ha il coraggio di denunciare deliberatamente (per paura delle sue reazioni o per pura e semplice convenienza): il film ricostruisce la vicenda della comica avanzata della baronessa Marguerite Dumont (figura liberamente ispirata a Florence Foster Jenkins) nel mondo dell'opera francese.

Per farla breve, una nobile francese (ricca da far spavento) desidera cantare ma nessuno ha il coraggio di dirle che è una sciagura per i timpani, così lei acquista fiducia in se stessa fino a spingersi verso infauste luci della ribalta.
La commedia di Xavier Giannoli è un'opera di buonissimo livello, un vero labor limae di ironia chirurgica e solidità narrativa, aiutato da scelte visivamente insolite ma in linea con il percorso tracciato.

E' il caso, ad esempio, della gincana che il regista porta avanti dall'inizio alla fine tra spazialità e temporalità diegetiche ed extra-diegetiche: le fotografie continuamente scattate o sviluppate in camera oscura e la musica suonata e intonata (gradevolissima è la colonna sonora) sono esempi di portali che vengono sfruttati per condurre lo spettatore su piani di racconto differenti, per entrare e uscire dalla “storia” convenzionalmente intesa e aprire varchi sul passato, presente o sul futuro, sul mondo interiore dei protagonisti, sulla loro specificità emotiva. Anche la simbologia a cui attinge Giannoli è particolarmente anomala per il genere a cui potremmo ascrivere “Marguerite” ma al tempo stesso è assolutamente affascinante: l'uso ripetuto e consapevole di animali, la ripetizione di inquadrature fisse come strumento semiotico, fotografie scattate a più riprese quasi fossero motivi iconografici dell'ascesa e poi della caduta della protagonista.

Il regista francese non si è semplicemente limitato a confezionare un’ottima commedia leggera ma ne ha stabilito dei valori estetici particolari in cui avrebbe dovuto forse credere maggiormente. Straordinaria l'interpretazione di una splendida Catherine Frot (nel ruolo della protagonista), delicata e raffinata, sempre precisa sull'altalenante e ostico saliscendi emotivo di un personaggio tanto complesso quanto affascinante.

La fama di essere o apparire come qualcosa che fa parte dei nostri sogni, immaginare una vita senza realizzarla per davvero, passando le giornate nel silenzio e nella menzogna di tutto l'universo umano che ci circonda, questo pare essere l'assioma fondamentale dell'imprendibile Marguerite Dumont, una stonata cronica ma dall'energia vitale contagiosa. Ecco cosa sorprende se ci si concentra per un attimo sul quid, sulla vicenda nuda e cruda: la donna che la pellicola ci racconta non è banalmente una sognatrice, non è “parte” di un sogno ma è da sé un sogno, è il proprio sogno e in quanto tale si può permettere di spendere e spandere leggerezza ovunque.

E poco importa se il marito, l'uomo dalle cui labbra pende da una vita intera, la tradisce. Sarà la sua libertà assoluta d'espressione (e, ahimè, canora) a riconquistarlo (per questo il film ha anche un risvolto sentimentalistico che forse andava regolato con maggior cura).

“Marguerite” è una melodia che fa bene al cuore e alle orecchie (finché la Frot non canta, questo è scontato).


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