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Mai morire











Tutto è partito dal momento in cui il messicano classe 1976 Enrique Rivero, durante le ricerche per gli esterni della sua opera d’esordio "Parque vía" (2008), tramite la quale si aggiudicò il Gran Premio presso il Festival di Locarno, fece visita ad una anziana signora che viveva vicino a un cimitero di cui aveva bisogno per il suo film.
Infatti, pare che la donna, di nome Chayo e forte, risoluta e con una grande fede in Dio, le abbia raccontato di quando fece ritorno a casa, a Xochimilco, per prendersi cura della madre malata che, però, nonostante tutti i suoi sforzi, morì.
Un evento che, secondo lei, pare fosse destinato a succedere perché parte logica della vita, non la sua fine, e di cui lo stesso regista ha capito il significato soltanto dopo aver vissuto una situazione analoga quando, nel 2009, si è trovato a dover trascorrere dieci giorni in ospedale accanto alla propria genitrice morente.
Non a caso, con le fattezze di Margarita Saldaña, la protagonista di questa sua seconda prova dietro la macchina da presa si chiama Chayo e torna nella città natale di Xochimilco, dove, circondata dall’amore e dalla sublime bellezza della natura, si vede costretta a rinunciare a ciò per occuparsi della mamma in fin di vita.
Quindi, tra abitazioni fatiscenti e verdi scenografie naturali, sono le percezioni e il bagaglio di sentimenti di questa decisa figura femminile a essere esplorati nel corso dei circa ottantaquattro minuti di visione; man mano che la vediamo alle prese con la lotta e lo scontro, la sottomissione e, infine, la liberazione dai legami di questo mondo.
Eppure, nonostante la buona prova del cast, includente anche Amalia Salas e Juan Chirinos, non tarda a farsi viva l’impressione che la pellicola sia un po’ troppo penalizzata dal personale stato emotivo di cui era preda il cineasta – che dichiara di averla realizzata per comprendere compiutamente l’esperienza degli anni passati – a seguito del succitato, tragico episodio.
Tanto che l’insieme si riduce in maniera esclusiva ad una lunga, lenta attesa nei confronti di un epilogo volto a ribadire che nessuno può sfuggire al proprio destino; ma anche a lasciarci intendere che il tutt’altro che coinvolgente lungometraggio appena visionato rientri tra i classici elaborati che – quasi per forza d’inerzia – il pubblico dei festival finisce sempre per applaudire.

La frase:
"Non posso lasciarti morire".

a cura di Francesco Lomuscio

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