L'Intrepido
L’attesissimo film di Gianni Amelio sulla crisi è stato presentato a Venezia con pochi applausi e molti fischi. Antonio è "between jobs" per scelta, o, meglio, si guadagna da vivere sostituendo chi non può lavorare, è un eterno rimpiazzo. La macchina da presa lo segue mentre svolge i suoi mestieri, ogni giorno uno diverso, in varie zone di Milano.
Questa ottima idea di base rende il protagonista la metafora perfetta del giovane (ma non solo) precario, costretto a una vita di incertezze e a cimentarsi in ogni tipo di lavoro, ma purtroppo è stata infarcita di facili sentimentalismi e drammi familiari. Antonio incontra una ragazza, anche lei vittima della crisi, e i due stringono un’amicizia tesa a rappresentare due approcci opposti alle difficoltà – economiche ma anche di altra natura – che ci vengono poste di fronte. A tutto questo si aggiunge il rapporto profondo che lega il protagonista al figlio, aspirante sassofonista che non riesce a sfondare con il suo gruppo.
Qualcosa non funziona in questo film, che sembra strizzare l’occhio al cinema italiano del dopoguerra, in particolare a certi film del Neorealismo rosa (la sensazione di vagabondaggio, la speranza che viene trasmessa); in questo caso, però, la commistione di dramma e leggerezza lascia uno sgradevole sapore dolceamaro. Amelio non ha la forza di mantenere costantemente viva la connessione che lega il personaggio agli spettatori, a causa di molte scelte (registiche e di scrittura) che sanno di già visto, quasi di sicurezze in cui rifugiarsi in assenza di idee migliori. Alcuni buchi di sceneggiatura fanno sì che degli elementi potenzialmente interessanti sfocino in cliché: uno su tutti, il personaggio appena abbozzato della ragazza e la sua inspiegabile depressione.
Ottima si è rivelata la scelta del protagonista: Antonio Albanese, nel ruolo del misero tuttofare, così lontano dal contesto in cui siamo abituati a vederlo, riesce a sostenere il film rimanendo molto controllato ed essenziale, in grado di far convivere nella sua prova attoriale registri diversi senza stonature. Suicida, invece la scelta del resto del cast: da un discutibile Gabriele Rendina a un’imbarazzante Livia Rossi, che non riesce a reggere nemmeno un minuto nei panni del suo personaggio.
Ne risulta un film che manca completamente il bersaglio: punta sull’empatia ma a tratti appare così scontato da sfociare in una freddezza tale da lasciare asettico lo spettatore.
Dov’è finita la forza del cinema di Amelio, già vincitore di un Leone d’Oro nel 1998 con "Così ridevano"? Sembra essersi persa per strada, ma, ricordandoci del piccolo gioiello regalatoci due anni fa ("Il primo uomo"), siamo sicuri che si tratta solamente di un incidente di percorso.
La frase:
"Un uomo senza cravatta compra ma non vende".
a cura di Luca Renucci
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