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Je suis heureux que ma mère soit vivante
Sono passati sei anni da quando il Festival di Venezia ha creato una sezione speciale per il cinema d’autore e per la sperimentazione cinematografica, che ha preso il nome di "Giornate degli Autori" e ad aprire questa nuova edizione di questa categoria del festival lagunare è stato "Je suis heureux que ma mere soit vivante". La pellicola di origine francese vede collaborare insieme padre e figlio, Claude e Nathan Miller alla ricerca del sentimento, della parte più oscura e profonda che ogni uomo ha dentro di sé: l’inconscio. Il film è tratto da una storia realmente accaduta e cerca di mostrare come l’infanzia e i ricordi di quel periodo siano fondamentali per la formazione dell’identità del futuro adulto. La presenza, o l’assenza, dei genitori o comunque di coloro che si occupano della crescita del bambino sono le basi fondamentali da cui poi prenderà vita l’adulto. I due registi e sceneggiatori indagano proprio questo aspetto e studiano il sottile e indissolubile legame, seppur costellato di litigi e gesti inconsulti, che lega i figli ai genitori o a chi ne fa le veci. E’ la storia di Thomas, un ragazzo di venti anni dall’adolescenza travagliata e dato in adozione, insieme al fratello minore Patrick, quando aveva quattro anni. Tutto procede bene con la nuova famiglia dolce ed affettuosa, ma il periodo dell’adolescenza è sempre duro per tutti, è il periodo della ribellione, e Thomas vuole sapere. Ricorda la sua mamma, anche se brevi sprazzi, momenti della vita vissuta con lei e il fratellino, ricorda il momento dell’abbandono e dell’adozione, dunque vuole sapere: "era bella mia madre?". Interrogativi a cui i genitori non sanno rispondere e a nulla valgono i tentativi di disciplinarlo, solo il collegio sembra riuscire a calmarlo, ma dentro di sé cova il rancore per essere stato abbandonato, il desiderio di essere amato.
All’età di dodici anni comincia a cercarla e, grazie alla complicità di un’impiegata della Procura francese, ritrova la madre. Tutto sembra risolversi, non c’è la felicità completa, non c’è il meraviglioso idillio, ma Thomas sembra aver trovato il suo equilibrio, finché la gelosia, l’odio e la rabbia non trovano improvvisamente sfogo accecandolo. Il lieto fine sembra ben lontano, ma...
Disagio, gelosia, rabbia, senso d’abbandono, desiderio di sapere e trovare le proprie origini e avere risposta alle domande sono gli elementi basilari del film che indaga, che ricerca manifestazioni di questo disagio. La telecamera guidata dai due Miller, coadiuvata dalla fotografia di Aurélien Devaux, si muove lenta, ma fluida alla ricerca del quid, nel tentativo di catturare lo sguardo, il momento in cui l’anima si manifesta, il "lampo interiore". Vincent Rottiers, che interpreta il ruolo del protagonista, mostra tutta la sua abilità catturando l’attenzione dello spettatore e mostrando il suo pathos interiore, senza mai eccedere, con equilibrio e moderazione. La stessa cosa si può dire per il piccolo attore, che impersona Thomas a quattro anni, che colpisce per la sua espressività e i suoi sguardi, è da notare il cambiamento che si legge nei suoi occhi. All’inizio quando guarda la madre c’è gioia nel suo sguardo, poi quando la madre lo abbandona la luce nei suoi occhi sembra spegnersi improvvisamente.
Il paesaggio è scarno, così come i dialoghi, ma nonostante tutto vi è un’attenzione per i particolari, per tutto quello che riguarda la vita di tutti i giorni, nel tentativo di mostrare i personaggi nella loro quotidianità.
La frase: "Quando penso che non li vedrò più non mi sento bene!".
Federica Di Bartolo
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