Ixjana
"Ixjana" è la storia di Marek Newski, un giovane scrittore che cerca in tutti i modi di scoprire il mistero che circonda la morte dell’amico Artur e per farlo cerca di ricostruirne l’ultima serata, dalla festa in maschera di un editore ad un viaggio nei bassifondi della città. Ad accompagnarlo in questa affannosa e tortuosa ricerca è Marlena (Magdalena Boczarska) una donna vista di sfuggita al parco.
E’ un viaggio alla ricerca della verità che si sviluppa attraverso immagini visive affastellate l’una accanto all’altra, in un susseguirsi di violenze e sequenze quasi claustrofobiche che rasentano l’horror senza però definirsi. Ecco cos’è "Ixjana", una congerie indefinita di generi che si sposta dal drammatico, al thriller all’horror quasi pulp, con l’aggiunta di leggere venature noir, su una sceneggiatura a tratti scollegata, interrotta, che inficia l’opera. Il secondo film dei fratelli Jòzef e Michal Skolimowski, figli del celebre regista Jerzy Skolimowski, è un gioco di parole a volte senza senso, una babele visiva e dialettica che riprende le teorie di Faust e di Henri Bergson, alla ricerca della verità attraverso atmosfere notturne, cercando di simulare attraverso la regia i ritmi cadenzati della psiche del protagonista, interpretato da un bravo Sambor Czarnota. Qualcosa però non va, qualcosa si perde e si spezza e così questo strano thriller che all’inizio appare decisamente promettente, improvvisamente si perde evolvendosi in un escalation di violenza visiva gratuita, finendo in una bolla di sapone. Cosa decisamente strana per i due registi che in passato non solo hanno realizzato "The hollow men", presentato al Festival di Venezia, ma hanno anche collaborato con il padre sul set di "Essential killing". Una formazione pregressa che si avverte attraverso citazioni e movimenti della macchina da presa che ricordano quelli del regista, sceneggiatore, produttore polacco naturalizzato francese, Roman Polanski e al tempo stesso lo stile del regista, sceneggiatore, produttore, pittore, musicista, attore, scenografo, scrittore e montatore oltre che compositore David Keith Lynk. La struttura di base è quella di un thriller psicologico, ma durante l’evolversi del mistero, la narrazione diventa discontinua passando con salti fra il passato e il presente, elemento che pare inficiale l’opera che finisce per non catturare l’attenzione del pubblico. Il lungometraggio trascende la narrazione assumendo elementi quasi grotteschi ed onirici che appesantiscono la struttura già fragile e articolata. L’opera dunque non convince e non appassiona, restando una sorta di esperimento cinematografico visivo senza una vera struttura logica.
La frase:
"Mio fratello, il mio assassino".
a cura di Federica Di Bartolo
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