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Il gioiellino
Il gioiellino in questione è la Parmalat della gestione Tanzi, che alla fine del 2003 implose nel suo castello di sabbia bucato da quattordici miliardi di euro e affondò tra le menzogne che portarono al più grande scandalo finanziario privato che l'Europa ricordi.
Il regista Andrea Molaioli (già ammirato con "La ragazza del lago"), insieme agli sceneggiatori Ludovica Rampoldi e Gabriele Romagnoli, tenta di raccontare a carte scoperte lo scandalo che si consuma nel decennio che va dal 1992 ai primi anni 2000 e le ragioni che hanno portato quel management inadeguato a frantumare le norme più elementari in un crescendo grottesco di bilanci truccati, società off-shore, corruzione e connivenza politica (principalmente, con la DC di De Mita).
I personaggi principali della vicenda sono noti ma hanno nomi di fantasia: il direttore finanziario è il ragioniere Ernesto Botta (Toni Servillo), il patron è Amanzio Rastelli (Remo Girone), la sua nipotina opportunista è Laura Aliprandi (Sarah Felberbaum), il direttore marketing è Filippo Magnaghi (Lino Guanciale).
Rastelli è il classico imprenditore-accentratore, dal fatturato importante ma dalla modesta cultura d’impresa, il self made man cui è sfuggito di mano il bolide in cui siede alla guida, che sembra aver imparato a memoria la teoria sui significati intangibili della marca ("Non vendiamo solo un prodotto ma valori") ma che calpesta irresponsabilmente ogni più elementare principio etico.
La tesi di Molaioli è che dietro gli ingarbugliati e abietti scenari della finanza si nascondano degli uomini dallo spessore professionale inadeguato. Per questo motivo la sua macchina da presa, vagamente sorrentiniana, si sofferma sul ragionier Botta: sui suoi limiti (non ha proseguito gli studi, ha poco dimestichezza con il computer, impara l'inglese ascoltando cassette audio) e sul rapporto con "lo squalo" Laura Aliprandi. Tuttavia, parere di chi scrive, a fare accadere i grandi crac contribuiscono più che altro la disonestà, il cinismo e l'avidità degli uomini. Sarebbe stata più appassionante e pertinente un'analisi in questo senso.
In linea generale, manca un approfondimento psicologico circa le motivazioni del proprietario e dei dirigenti Leda (nome di fantasia, acronimo di "latte e derivati alimentari"), su quelle vite sbiadite, sulla loro brama di gloria, sui paradossi della gestione. Lo svolgimento degli eventi in molti punti appare meccanico e si ferma alla cronaca dei fatti priva di una visione più intima e un'indagine più approfondita sulle relazioni che intercorrono tra tutti i personaggi. C'è la ricostruzione personale, ma manca un'elaborazione avvincente.
Il valore aggiunto è il sempre bravissimo Toni Servillo, che tuttavia (per colpe non sue) si sta chiudendo in una sorta di stereotipo sulla scia di Titta Di Girolamo de "Le conseguenze dell'amore"; gli ultimi tre film ("Gorbaciof" e "Una vita tranquilla", oltre a questo) che vedono come protagonista l'attore di Afragola mostrano lo stesso uomo introverso, solitario, sfuggente e restio a emozionarsi.
Molto convincente il rifacimento dell'azienda dal punto di vista marketing e comunicazione (Leda ha un logo, una linea di prodotti, pubblicità e sponsorizzazioni sportive che si evolvono durante la pellicola), e affascinanti le riprese negli stabilimenti di produzione. Quest’attenzione al dettaglio – per niente scontata – ha fornito un grande contributo in termini di "attualizzazione" e attrazione verso uno spettatore che a conti fatti può dirsi parzialmente (scremato e) soddisfatto.
La frase: "Se i soldi non ci sono, inventiamoceli".
Nicola Di Francesco
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