Il Divo
Apertura con glossario "italiano", che ha lo scopo di guidare lo spettatore nelle terminologia e cronologia della politica italiana degli anni Novanta; chiusura con lo scorrere delle sentenze dei processi a carico di Giulio Andreotti, senatore a vita, ora ottantanovenne.
Scritte rosso cupo, il colore del sangue verrebbe da dire, perché gli anni Novanta, da cui il film di Paolo Sorrentino prende il via, furono anni tragici per l’Italia, di omicidi e suicidi, di nodi del passato che vennero al pettine, di Tangentopoli, della mafia, di Giovanni Falcone. Anni che si aprono ne Il divo con il VII Governo Andreotti e con un inizio folgorante: una musica vivace e ritmata, orecchiabile, accompagna con piglio surreale una catena di uccisioni, con fiotti di sangue vivo che rammentano le scritte di pochi istanti prima.
Sorrentino concentra il suo sguardo sugli anni che vanno dal 1992 ai processi per collusione con la mafia, tutti conclusi con l’assoluzione, a carico del senatore. Dopo la presentazione della "corrente andreottiana", uno dei momenti più riusciti, per originalità e senso del grottesco, del film, in cui vediamo sfilare, nome e cognome e soprannome, i personaggi che furono lo scudo di quegli anni attorno ad Andreotti, il film miscela pubblico e privato, fornendoci un ritratto dell’uomo politico più potente e longevo, cercando di sondare il mistero Andreotti. Un tutto tondo che, ovviamente, non riesce a penetrarne il segreto, a scalfirne le risposte lapidarie, di un’ironia feroce, di colui che è stato, come disse Indro Montanelli o "il più scaltro criminale o il più grande perseguitato della storia d’Italia".
Paolo Sorrentino, regista e sceneggiatore con la consulenza del giornalista Giuseppe D’Avanzo, ne Il divo riesce (cinematograficamente) quando, con il suo personalissimo stile e una commistione di musiche e immagini, con riprese di primi piani e un uso serrato della macchina da presa, utilizza come chiave di lettura il grottesco, in questo caso forse l’unica chiave interpretativa. Di un uomo, colto nel privato e umanizzato, del Potere che incarnava e che maneggiava.
Fallisce quando cade nelle banalizzazioni degli sketch, delle gag, che paiono una commistione del Bagaglino, e dei fratelli Guzzanti: ma mentre la satira, per essere efficace, deve essere fulminante, una scarica elettrica che arriva e lascia il segno, il prolungamento di certi siparietti da cabaret per 110 minuti alla fine perde il graffio e la forza e, alla lunga, può risultare stancante, senza più impatto.
Un film che lascia malinconici, con questa galleria di personaggi e corruzioni, di morti e stragi e che ci fa uscire dalla sala vergognosi, più che divertiti.

La frase: "Ho la coscienza di essere di statura media, ma se mi giro attorno non vedo giganti".

Giulia Baldacci

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