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Green Days
Un giorno forse, la crescente disponibilità di tecnologie di comunicazione saranno un serio grattacapo per dittature, regimi totalitari e sistemi di governo non democratici. Per quanto i tiranni cercheranno di mantenersi al passo con i tempi, tentando di bloccare o inibire le modalità di espressione del libero pensiero, ci sarà sempre qualcosa che sfuggirà dalla loro stretta autoritaria, arrivando fino alle cattive coscienze del "mondo libero". Questo film della regista iraniana Hana Makhmalbaf inizia rendendo omaggio ai molti che nei giorni della "Rivoluzione verde" in Iran si improvvisarono videoreporter e nel silenzio e nell’indifferenza della comunità internazionale filmarono le immagini proibite della repressione, pubblicandole su servizi video come YouTube e rendendoli visibili al mondo intero. Green Days è in realtà un film con una vicenda fittizia, pur se saldamente legato alla realtà. Ava è una ragazza che soffre di depressione e va da uno psicologo che le consiglia di dedicarsi a lavori pesanti per scacciare la tristezza.
Ava è portatrice di quel senso di delusione e di impotenza che provano tante giovani iraniane nei confronti di un paese sempre più schiavo dell’ortodossia, messo in crisi dalle ambizioni di Ahmadinejad e sempre più screditato sul piano internazionale. Anche l’esercizio del voto democratico diventa un’illusione dal gusto beffardo della presa in giro. Persino il teatro, prontamente vietato dal governo, non rilascia le energie positive di cui la donna ha bisogno. Allora Ava va a cercare un filo di speranza nelle strade, nel malcontento nei confronti dei governanti, nella prostrazione economica in cui l’Iran si dibatte. Unica conclusione possibile è che il cambiamento è ancora un miraggio lontano, ancora un sogno rubato.
Pur avendo qualche piccolo difetto (la parte teatrale è troppo "letterale" per essere convincente), Green Days ha il pregio di fotografare in maniera precisa la disillusione e la disperazione di una donna iraniana, che rende di questo documento il proprio grido di dolore per una patria ancora troppo lontana dalla vera libertà.
La frase: "Dottore, sono molto malata".
Mauro Corso
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