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Green bookLa recensione del film a cura della Redazione di FilmUP.com di Francesco Lomuscio24 gennaio 2019Voto: 7.5
Possono due individui molto diversi tra loro capirsi e rispettarsi a vicenda?
Autore insieme al fratello Bobby, tra l’altro, di geniali cult della comicità in fotogrammi quali “Amore a prima svista” e “Scemo & più scemo”, ispirandosi a una storia vera Peter Farrelly concretizza una commedia on the road come già fece per il secondo dei titoli citati, ma senza porre stavolta al proprio centro grottesche figure caratterizzate da evidente demenza. Perché è vero che si sorride nel corso delle circa due ore e dieci di visione, ma senza ricorrere alle consuete situazioni a base di disgusto e gag fuori di testa, in quanto il plot si immerge in un 1962 che, in seguito alla chiusura di uno dei migliori club d New York, vede il buttafuori italoamericano Tony Lip, che vi lavorava, costretto a procurarsi un altro impiego al fine di mantenere la propria famiglia. Il Tony Lip cui concede anima e corpo un Viggo Mortensen sbruffone, sboccato e in sovrappeso che accetta, quindi, di fare da autista al raffinato ed educato pianista afroamericano Don Shirley alias Mahershala Ali, seguendolo in tour nel sud degli Stati Uniti. E, ricordando più o meno vagamente il rapporto che si instaurava tra François Cluzet e Omar Sy nel francese “Quasi amici - Intouchables” di Olivier Nakache ed Éric Toledano, sono soprattutto i loro duelli verbali a rappresentare il punto di forza di un autentico incontro-scontro sociale a bordo di una Cadillac Coupe De Ville mirato a lasciar emergere il vedere il mondo attraverso gli occhi di un’altra persona e l’imparare a vivere nei panni dell’altro. Un viaggio accompagnato da una splendida colonna sonora di vecchie hit spazianti da “Lucille” di Little Richard a “The Christmas song” di Nat King Cole, passando per “Slow twistin’” di Chubby Checker e “Won’t be long” di Aretha Franklin; man mano che da un lato, con non pochi contrasti di mezzo, si instaura una forte amicizia tra i due ottimi protagonisti, e dall’altro, invece, si fa sentire il grande peso del razzismo e delle discriminazioni tipico delle autorità e, in generale, della popolazione americana degli anni Sessanta. Un razzismo che viene però affrontato in maniera tutt’altro che banale e riuscendo nella non facile impresa di non scadere in facili patetismi, spingendo anche lo spettatore a chiedersi se sia vero che occorre coraggio per poter cambiare l’animo delle persone, in quanto non è sufficiente il genio. Il rischio classico dei lungometraggi improntati su questa tipologia di vicende, ma che Peter Farrelly evita tranquillamente riconfermando la capacità dei suoi personaggi di risultare sempre veri, trasudanti umanità, che si tratti di imbranati non troppo sani di mente presi in maniera garbata in giro, di un Jack Black che vede longilinea e affascinante una Gwyneth Paltrow obesa o, appunto, di un talentuoso artista di colore alle prese con un tutt’altro che elegante accompagnatore e con una determinata ignoranza di stampo yankee. Personaggi che, regalati da un perfetto script concepito a tre mani dal regista stesso insieme a Nick Vallelonga e Brian Currie, non possono fare a meno di colpire nel cuore... arrivando quasi a suggerire, oltretutto, che “Green book” non avrebbe affatto sfigurato tra le migliori pellicole sfornate dal compianto maestro della Settima arte Frank Capra. La frase dal film:
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