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Gli anni più belli

La recensione del film a cura della Redazione di FilmUP.com

di Francesco Lomuscio30 gennaio 2020Voto: 6.5
 

  • Foto dal film Gli anni più belli
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Sul grande schermo avevamo avuto modo di vederli tutti e tre insieme in “Romanzo criminale”, diretto nel 2005 da Michele Placido e che, curiosamente, torna in un certo senso alla memoria nel corso delle primissime immagini di questo dodicesimo lungometraggio a firma del romano Gabriele Muccino.

Sono Pierfrancesco Favino, Kim Rossi Stuart e Claudio Santamaria, dei quali, proprio in maniera analoga all’apertura della chiacchieratissima pellicola ispirata ai fatti della Banda della Magliana, troviamo in scena le rispettive versioni giovanili incarnate da Francesco Centorame, Andrea Pittorino e Matteo De Buono.
Tre italiani di cui seguiamo la storia dai primi anni Ottanta ai giorni nostri, parallelamente a quella di un paese che li porta a diventare un avvocato, un professore di scuola superiore e un artista sognatore dal futuro sempre meno certo.

Sognatore che sposa una Emma Marrone nelle inedite e convincenti vesti di attrice, rientrante nel comparto femminile insieme a una Nicoletta Romanoff che torna al servizio dell’autore de “L’ultimo bacio” oltre un quindicennio dopo “Ricordati di me” e alla adolescente Alma Noce destinata ad assumere, da adulta, i connotati di Micaela Ramazzotti. Una donna fragile e alla continua ricerca di un vuoto affettivo, quest’ultima, tanto da essere traditrice, sola e tradita durante le oltre due ore di visione spazianti dalla caduta del Muro di Berlino alla nascita di un Movimento del cambiamento in politica, passando per Tangentopoli, l’ascesa di Silvio Berlusconi e l’attentato terroristico dell’11 Settembre 2001.

Quell’attentato che ha portato l’umanità a rendersi pienamente consapevole della propria vulnerabilità, come, tra amori, delusioni, dolori, successi e fallimenti, sembrano apprendere anche i protagonisti di questo affresco in fotogrammi volutamente citazionista nei confronti del capolavoro della Commedia all’italiana “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola. Capolavoro di cui vengono riproposte fedelmente diverse situazioni; man mano che la ricca colonna sonora di storiche hit include “Il rock del Capitan Uncino” di Edoardo Bennato, la “Don’t you forget about me” proveniente dalla soundtrack di “The Breakfast club” e la “Tu come stai” di Claudio Baglioni, il quale si occupa anche della canzone che presta il titolo al film. E, ricordandoci, inoltre, di menzionare meritatamente un Fabrizio Nardi che, lontano dalla sua maschera di comico, si cimenta in maniera sorprendente nel breve ruolo drammatico di un meccanico, possiamo dire di trovarci dinanzi ad un’operazione non all’altezza dei migliori lavori mucciniani, ma, di sicuro, capace di elevarsi oltre la media e di regalare più di un’emozione, senza annoiare.

Perché, mentre viene ribadito che nessuno a questo mondo non ha prezzo e che la paura muove tante cose, la presenza di uno dei più grandi talenti della Settima arte tricolore dietro la macchina da presa è facilmente intuibile grazie alle mai disprezzabili scelte tecnico-narrative, a cominciare dal momento in cui la già citata Ramazzotti sale di corsa le scale alternata dal montaggio al proprio corrispettivo giovanile.

Sorvolando sulle consuete grida liberatorie di cui si fa qui eccessivo abuso, a non convincere del tutto è, più che altro, l’impressione che l’indispensabile e feroce sguardo critico da sempre manifestato dal buon Gabriele stia tendendo ad essere fagocitato da un fastidioso e superficiale buonismo finalizzato a giustificare dietro ad un banale “Solo chi non vive non fa sbagli” e ad un “La rabbia è così, come se ne viene poi se ne va” imperdonabili comportamenti legati soprattutto all’infedeltà. Che si tratti di amicizia o di questioni sentimentali.


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