Dylan Dog - Il Film
Giacca nera, camicia rossa e jeans, è lui, l’indagatore dell’incubo più famoso dei fumetti... o, almeno, era lui finché lo potevamo osservare all’opera nelle avventure disegnate contenute negli albi editi da Sergio Bonelli a partire dal 1986, anno in cui uscì nelle edicole quel mitico numero 1 intitolato "L’alba dei morti viventi".
Già, perché il Dylan Dog che, dopo tanti anni di ripensamenti, serie televisive italiane annunciate e stesure di sceneggiature mai approvate, viene proposto dagli americani in versione pensione anticipata ma costretto a tornare in azione per decifrare le iscrizioni ritrovate su un antico manufatto in grado di annientare l’umanità, tutto ricorda tranne che l’eroe dalla faccia di Rupert Everett creato dal Tiziano Sclavi anche verbalmente omaggiato.
Assenti sia l’ispettore Bloch che il malvagio Xabaras, qui abbiamo il Peter Stormare di "Fargo" (1996) nei panni di Gabriel, leader dei Lupi Mannari, e il Taye Diggs di "Basic" (2003) in quelli di Vargas, leader del clan dei Vampiri, mentre la giovane Elizabeth alias Anita Briem cerca di far luce sull’orribile omicidio di suo padre.
Quindi, con abbondanza di effetti digitali neppure disprezzabili, siamo decisamente dalle parti di "Underworld" (2003), tra gigantesche creature che ricordano Nemesi di "Resident evil: Apocalypse" (2004) e discoteche affollate di succhiasangue che, in preda ad una potente droga, sembrano usciti direttamente dalla serie "Blade".
Perché, effettivamente, con il protagonista che, impersonato in maniera del tutto anonima dal Brandon Routh che aveva già provveduto a rovinare la figura di Clark Kent in "Superman returns" (2006), se ne va in giro a sfoggiare muscoli ed a prendere i mostri a pugni, quando non spara al ralenti con due pistole contemporaneamente imitando il Neo di "Matrix" (1999), l’aria che si respira è quella di un b-movie horror risalente al periodo a cavallo tra la seconda metà degli anni Novanta e l’alba del terzo millennio.
Un b-movie horror che Kevin Munroe, già regista del lungometraggio d’animazione "TMNT" (2007), riguardante le tartarughe ninja, gira sfoggiando notevole capacità tecnica, senza riuscire, però, ad evitare una certa fiacchezza narrativa imperante, nonostante le abbondanti dosi di movimento incluse nella pellicola.
E, mentre peniamo anche la risaputa mancanza di Groucho, il quale, a causa di problemi di diritti, viene sostituito con un assistente di nome Marcus che, interpretato dal Sam Huntington già al fianco di Routh nel citato film sul supereroe di Krypton, finisce trasformato in uno zombi, l'unico elemento che sembra rimandare alle storie di Sclavi è una certa ironia sempre pronta a fare capolino.
Per il resto, un’operazione che, ricordando nelle dinamiche più le fanta-trasposizioni dai fumetti Marvel e DC che l’orrore dylandoghiano di stampo europeo, testimonia soltanto l’ennesimo errore compiuto dagli italiani, capaci di farsi "rubare" e snaturare dagli squali d’oltreoceano perfino uno dei più importanti simboli della cultura popolare tricolore di fine XX secolo.

La frase: "Può essere duro morire a New Orleans, ma se muori e fai ritorno chiami me, Dylan Dog".

Francesco Lomuscio

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