La retrospettiva su Vertov alle Giornate del cinema muto 2004.
La preziosa retrospettiva su Dziga Vertov proposta dalle Giornate del cinema muto 2004 ha riaperto il dibattito su come la storiografia possa o no attingere al cinema (e in particolare al docu-film) come fonte per la ricerca. Le immagini della Russia post rivoluzione del '17 nella Kino-nedelia e nella kino pravda ha ripresentato il problema su quanto fossero valide come documento. Ad alimentare il dubbio ha contribuito il titolo della rassegna stessa che con una definizione dello stesso regista sovietico -ansioso di prendere le distanze dai film di finzione- è stata identificata con La fabbrica del reale, lasciando il sospetto che già la parola 'fabbrica' fosse sinonimo di artificiale e dunque inattendibile. Perché su una cosa non c'è dubbio: le riserve con cui gli storiografi hanno guardato al cinema non sono il frutto di una semplice 'spocchia' intellettuale nei confronti di un mezzo che generalmente serve all'intrattenimento. Semmai vanno ricercate nell'ambiguità -già rilevata da Pino Ortoleva- tra documento e rappresentazione che persiste nei film.
Se si crede però che gli eventi umani più che dall'opacità del caso siano regolati da una qualche forma di razionalità, è azzardato catalogare le immagini in movimento tra le fonti minori, soprattutto nell'attuale periodo che -secondo un luogo comune- è dell'immagine. Nel saggio La celluloid e la marbre del '55 Rohmer identificava "nella possibilità di riprodurre esattamente la realtà il privilegio più immediato del cinema". Si, ma quale realtà? Nella Kino-pravda 1-8 Vertov non si limita soltanto a mostrare, ma anche a spiegare i fatti, contribuendo così ad una costruzione del senso. Ad una sequenza di bambini che muoiono di fame nella Russia del 1922 (tesi), ne segue un'altra in cui lo Stato confisca i tesori della chiesa ortodossa (antitesi), salvo poi chiudere sulla didascalia "Ogni perla salverà un bambino" (sintesi). Si tratta di una palese manipolazione, ma è altrettanto palese che l'accaduto non può diventare non-accaduto (factum infectum fieri nequit) e se oggi, a 82 anni di distanza, imperversa nelle sale di mezzo mondo "Fahrenheit 9/11" è evidente che il cinema -come luogo dell'inconscio sociale- avverta ancora la necessità di indagare e raccontare oltre la televisione (più orientata ad un'informazione immediata) quel che Sorlin definisce si frammenti di realtà, ma innalzati al rango di paradigmi e dunque imprescindibili per gli storiografi, a meno che non vogliano limitarsi a snocciolare una mera cronologia di eventi. Tralasciando dunque posizioni più oltranziste secondo cui il cinema si possa inserire "nell'ordine di un rinnovamento della disciplina e delle ricerche storiche" (De Baeque e Delogue) vale la pena -come nel caso dei film di Vertov- soffermarsi sul valore di immagini che comunque, a voler essere pignoli, sono solo l'illusione del movimento. Stabilire quanto poi siano stati illusori anche i significati in esse racchiusi non è più compito nostro. E forse neanche degli storici.
di Antonio Valenzi
(18 ottobre 2004)
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