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Crimson Peak











Come nel romanzo “I misteri di Udolpho” di Ann Radcliffe, a quanto pare rientrante tra le più o meno dichiarate fonti d’ispirazione per l’operazione, al centro delle quasi due ore di visione abbiamo una giovane innocente destinata ad innamorarsi di un bel tenebroso.
Giovane innocente che, aspirante scrittrice del XIX secolo in fuga dai fantasmi del proprio passato, possiede i connotati della Mia Wasikowska di “Alice in Wonderland” (2010) di Tim Burton e corrisponde a Edith Cushing, il cui cognome non può fare a meno di richiamare alla memoria quello dell’indimenticabile Peter che affiancò il mitico Christopher Lee in non poche pellicole horror sfornate tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta dalla britannica Hammer Films.
D’altra parte, man mano che, nell’incarnare il misterioso sconosciuto Thomas Sharpe per il quale la donna perde la testa, il Tom Hiddleston di “Thor” (2011) arriva a ricordare nelle movenze e nella fisicità proprio colui che ricoprì più volte il ruolo del cacciatore di vampiri Van Helsing, risulta evidente che l’intenzione di Guillermo del Toro – autore, tra gli altri, del cinecomic “Hellboy” (2004) e del film con mostri giganti “Pacific rim” (2013) – sia quella di rievocare le cupe atmosfere delle ghost story cinematografiche di allora.
Atmosfere che, con una casa piena di segreti e inquietanti presenze pronte a fare la loro apparizione, lasciano qui avvertire una certa influenza anche dalle trasposizioni su celluloide dei racconti di Edgar Allan Poe effettuate dal re dei b-movie Roger Corman e dai lavori del nostro Mario Bava maggiormente mirati al gotico, a partire dall’episodio “La goccia d’acqua” incluso ne “I tre volti della paura” (1963).
Peccato, però, che, mentre l’ottima Jessica Chastain di “Zero Dark Thirty” (2012) concede anima e corpo a Lucille Sharpe, ambigua sorella dell’uomo, non solo l’esile script – a firma dello stesso regista insieme al Matthew Robbins con cui co-sceneggiò “Mimic” (1997) – finisce per basarsi su pochissime situazioni interessanti, ma non fatica a rivelarsi una banalissima immersione del plot che fu alla base de “Le verità nascoste” (2000) di Robert Zemeckis in un clima generale non distante da quello che caratterizzò “Il mistero di Sleepy Hollow” (1999) del succitato Burton.
Clima generale reso dall’ottimo lavoro svolto su scenografie, fotografia e costumi, ma che, pur giovando ad un aspetto visivo che non lascia certo indifferente lo spettatore, non riesce in alcun modo a nascondere la fiacchezza narrativa e la mancanza di tensione.
Aspetti atti a penalizzare di molto un elaborato il cui ulteriore errore risiede nel ricorso ad effetti digitali che attenuano involontariamente il potenziale spaventoso di uno spettro che, in altri tempi, sarebbe stato rappresentato in maniera ben più temibile ed analoga a quanto mostrato da John Irvin nel suo “Storie di fantasmi” (1981).
E non sono sufficienti una spruzzata di splatter (con tanto di sanguinolento omicidio nel bagno), argilla rosso emoglobina e una lotta finale sulla neve ad occultare per l’ennesima volta quanto sopravvalutato possa essere il cineasta messicano... il quale si sente forse il Quentin Tarantino del cinema fantastico senza tenere conto del fatto che, però, per omaggiare come si deve la popolare Settima arte di genere di un tempo occorrono fotogrammi graffiati e sporcizia assortita, non moderne tecnologie che rendano tutto pulito e molto più vicino a romanticherie in costume care ad un certo pubblico borghese.

La frase:
"I fantasmi esistono".

a cura di Francesco Lomuscio

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