Come il vento
Armida Miserere è stata una figura tanto discussa e controversa nella storia recente del nostro paese: tra le prime donne a dirigere un carcere, sostenitrice di una linea dura ma giusta (sua la frase “Un carcere deve essere un carcere, non un Grand Hotel”), è morta suicida il 19 aprile 2003 presso Sulmona, dopo aver sopportato per tredici anni il dolore causatole dall’assassinio del compagno Umberto Mormile, ucciso per mano della camorra.
Il film di Marco Simon Puccioni segue la vita della donna nell’arco di tempo che va dal 1989 alla sua morte. La solitudine che un lavoro di tale responsabilità provoca, il dolore che segue alla perdita di qualcuno che amiamo: tutti temi che “Come il vento” affronta con superficialità e maldestria, o piuttosto con un approccio da piccolo film pretenzioso che purtroppo, e dispiace veramente dirlo, in Italia ha molti seguaci. Le carte in tavola per realizzare un buon film c’erano tutte: una storia vera (in tutti i sensi) e ricca di spunti di riflessione, la presenza di bravi attori come Valeria Golino e Filippo Timi. Ma se poi non si ha il coraggio di osare, di mostrare il crudo realismo di una vita così sofferta, se si preferisce adagiarsi sul già sperimentato mille volte affidandosi a uno stile “soft” tra il mélo e la tragedia, allora non è possibile salvare un film che procede in una direzione assolutamente ipocrita e disonesta.
Perché eliminare dalla sceneggiatura tutte le critiche che la Miserere si era attirata conquistandosi soprannomi come “la femmina bestia”, in favore di un’apologia senza possibilità di appello di una donna devastata dal dolore di cui vengono messi in scena solo la determinazione e la voglia di giustizia ma nemmeno l’ombra di un difetto? Armida Miserere era molto più di questo, ogni essere umano è molto più di questo; metterne in ombra gli aspetti negativi non è un insulto alla sua memoria, è pura ipocrisia.
La forza intrinseca di questa storia si sfalda tra belle immagini accompagnate da musica, che insieme vorrebbero cercare lampi di poeticità laddove non ce n’è, o meglio dove non deve esserci. Un approccio più realistico avrebbe forse spaventato il pubblico? Probabilmente avrebbe solo restituito potenza e verità alle sofferenze della Miserere, che di sicuro non si è mai trovata invischiata in conversazioni come “Per te cos’è l’amore?” “Per me è una speranza che viene dall’anima”. L’unico risultato della direzione presa dal regista sono la piattezza e la noia in un film che dovrebbe far commuovere e arrabbiare.
Anche le prove degli attori ne risentono: tutti quanti sembrano trovarsi sul set senza una preparazione adeguata, mal diretti da un regista che ha avuto almeno la fortuna a trovarsi a lavorare con Valeria Golino che, anche se non abbastanza seguita, sa salvare le apparenze e tenere in piedi un film con intensità e contenutezza, nonostante avrebbe potuto raggiungere enormi risultati con questo ruolo.
La frase:
"Dobbiamo fare solo il nostro lavoro. Niente di più, niente di meno".
a cura di Luca Renucci
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